di Piero Cammerinesi
Una delle parole di cui l’uomo si riempie di più la bocca è “verità”. Per la “verità” giura, tradisce, combatte, uccide, muore
Ognuno crede di averla e nessuno ce l’ha. Ognuno ha la “sua”, ma è diversa da quella degli altri. E qui nasce l’inghippo.La verità che noi propugniamo, esaltiamo, gridiamo è sempre espressa in parole. Ma le parole sono in grado di esprimere fedelmente i concetti?
Quante volte ci capita di affermare qualcosa che l’altro dice di non condividere – per poi scoprire che dicevamo la stessa cosa, solo con parole diverse? Allora non potrebbe darsi che in molti casi il problema non sia nella “verità” ma nel linguaggio, nella mancanza di relazione univoca tra la parola e la realtà che si cela dietro di essa?
In linguistica si chiamano significante e significato. Ferdinand de Saussure – il padre della linguistica moderna – portava ad esempio questa semplice frase: “la guerre, vous dis-je, la guerre!” Vedete – diceva – tra la prima esclamazione “la guerre” e la seconda, ci sono delle sostanziali differenze di significato; il significante è il medesimo ma il valore che la parola assume è diverso.
Questa è la croce che ci portiamo dietro con il linguaggio, che ci fa credere di avere ragione, di “possedere” la verità, che ci fa litigare, fare polemica, finanche insultare quelli che – crediamo – non la pensano come noi. Ma forse sarebbe meglio dire “non la dicono come noi”.
Come fare, allora, per uscire da questo cul-de-sac? Come prima cosa dobbiamo imparare a dare alle parole un senso preciso; esse devono avvicinarsi il più possibile a concetti delimitati, afferrabili come unità interpretative. Una buona parte delle incomprensioni e dei dissidi tra le persone è causata dalla mancanza di relazione univoca tra la parola e la realtà che si cela dietro di essa.
In secondo luogo, tener conto che esiste una differenza sostanziale tra “verità” e “Verità”, quella con la V maiuscola. La prima è qualcosa che potremmo definire “ciò che è conforme alla realtà dei fatti” mentre la seconda è un “essere spirituale” vero e proprio. La pretesa umana di “possedere” la verità, evidentemente, può essere applicata solo alla prima, nel caso che la persona abbia esperienza diretta dei fatti – interiori o esteriori – in questione.
Ma tale verità è per sua natura incompleta, non è la Verità, la quale – per sua natura – non è esaustivamente esprimibile tramite il linguaggio. Eppure – paradossalmente – tutti pretendono di rappresentarla. Ora il compito del ricercatore è quello di avere un rapporto il più autentico possibile con la Verità, in quanto essa è non un’idea, ma un essere spirituale.
Al tempo stesso egli deve progressivamente ‘spogliarsi di se stesso’, man mano che cerca di cogliere il piano dell’essere vivente della verità. Diventare ‘spacciatori di verità’ significa attuare la ferma, indefettibile, pervicace e – a volte – pericolosa inclinazione all’osservazione e all’affermazione di ciò che è vero al di là di ogni dubbio. Il resto non è vero, è solo vero-simile.
Nel caso, ad esempio, dei fatti del 9/11, io non so con certezza come siano andate le cose – quali siano i responsabili, chi abbia organizzato il tutto – quello che so con certezza è che la versione ufficiale non può essere vera. Questa è una verità e a questa mi attengo; questa… “spaccio”. Naturalmente “est modus in rebus”, si deve sapere a chi e come spacciarla la verità, ma questa è un’altra storia…
“Se le centinaia e migliaia di persone che sono tra loro in disaccordo, si rendessero indipendenti da se stesse, perverrebbero alla stessa verità”. R.Steiner
Fonte: http://coscienzeinrete.net