Si chiama “Football Trafficking”, ed è una pratica che, quando va bene, serve a riempire le tasche dei falsi agenti, quando va male alimenta un traffico di esseri umani.
Quando finì all’improvviso sotto i riflettori per la dubbia età anagrafica messa in discussione dalle sue caratteristiche fisiche imponenti, del passato di Joseph Minala, centrocampista camerunense classe ’96 di proprietà della Lazio, non si sapeva praticamente nulla. Nelle giovanili biancocelesti spiccava su tutti per doti tecniche e soprattutto fisiche. Facile, allora, abbandonarsi alle speculazioni.
Poche settimane dopo, con le acque ben più calme, Minala concesse un’intervista a Sky Sport raccontando un aspetto drammatico della sua vita, che sarebbe dovuto balzare agli onori delle cronache in modo ben più deciso rispetto alle registrazioni anagrafiche: “Arrivai in Italia perché un agente mi promise un provino con il Milan – disse. Ma non c’era alcun provino e nessun Milan. Arrivai alla stazione Termini e questa persona mi diede un cellulare e mi disse ‘aspettami qui’, ma mi abbandonò lì solo”.
Un semplice raggiro, si dirà. Spietato, perché fa leva sulle passioni di giovani africani che sognano di sfuggire alla miseria diventando i nuovi Samuel Eto’o, ma pur sempre un raggiro. In realtà, la storia di Minala è quella di almeno altri 15mila calciatori africani, che ogni anno vengono adescati in Paesi come Nigeria, Mali, Ghana e Camerun da sedicenti talent scout e spediti in giro per il mondo ad inseguire la promessa di contratti con grandi club professionistici.
Si chiama Football Trafficking, ed è una pratica che, quando va bene, serve a riempire le tasche dei falsi agenti, quando va male alimenta un traffico di esseri umani che soli, senza soldi, e abbandonati a migliaia di chilometri da casa diventano prede facili per organizzazioni criminali dedite allo spaccio di droga, alla prostituzione e al traffico di organi.
Il modus operandi è sempre lo stesso: i giovani atleti, spesso male informati e privi di istruzione, vengono avvicinati con la promessa di diventare famosi (ultimamente peraltro la diffusione dei social ha reso la “caccia” molto più semplice). La condizione è che le loro poverissime famiglie sborsino una retta per le spese, che può variare dai 750 fino ai 5mila dollari. Gli agenti tuttavia non sono iscritti in alcun registro ufficiale e non hanno collegamenti con le squadre di cui sostengono di essere procacciatori di talenti, ma grazie a un paio di accorgimenti come creare falsi siti internet affiliati alla Fifa e profili social costruiti ad arte, riescono in qualche modo a risultare credibili.
Molte famiglie africane, disperate e pronte a tutto pur di offrire ai propri figli la possibilità di una vita migliore, vendono terreni, imprese, piccole attività, fanno debiti paralizzanti per mettere in condizione i loro ragazzi di tentare la fortuna nel calcio, pagando ciò che i falsi agenti pretendono. Una volta sborsato il denaro, i “talent scout” scompaiono e i giocatori vengono abbandonati, senza soldi, senza visti, senza prospettive di lavoro. Alcuni di loro finiscono in Turchia, in India, in Europa o in altri paesi africani. Persino in Nepal. Una volta arrivati a destinazione, sono costretti a cavarsela da soli in una terra spietata.
Nonostante i continui appelli alla Fifa e ai più importanti organi del calcio mondiale, il grande bazar dei giovani calciatori è ancora attivo, e secondo Foot Solidaire, una Ong con sede a Parigi che aiuta i giovani calciatori africani abbandonati in Europa, genera profitti a dismisura. Il fondatore, il camerunense Jean-Claude Mbvoumin, ha affermato che sarebbero circa 4mila i calciatori, tra i 14 e i 20 anni, che vengono attirati ogni anno solo in Europa: “È un problema politico, che per essere risolto, richiede un impegno serio delle Nazioni Unite e della Fifa, oltre che delle organizzazioni che si battono per i diritti umani”.
Non solo, perché quand’anche riuscissero ad approdare nel mondo del calcio, magari non di primissima categoria, potrebbero comunque essere intercettati da questa piovra dello sfruttamento. Si pensi alle false generalità fornite per promuovere pupilli (come l’ex interista Assane Gnoukouri, un ottimo prospetto poi sparito dai radar, perché l’Olympique Marsiglia, dopo aver manifestato interesse, si tirò indietro dall’affare per via di una documentazione quanto meno fantasiosa. Alla fine, si scoprì che sia i suoi dati anagrafici che lo stesso nome di battesimo erano totalmente artefatti) e generare plusvalenze.
O si pensi al business delle scommesse. Molti giovani calciatori sono sempre più spesso gli obiettivi privilegiati delle avances dei faccendieri del gioco d’azzardo e, pur venendo in questo caso sempre meno le distinzioni tra comunitari ed extra-comunitari, la situazione finanziaria di base e il background alle spalle consente ai “mediatori” di profilare le prede in modo molto chiaro. Coinvolgere giovani e ingenui calciatori arrivati da poco dal Continente Nero, e bisognosi di trovare risorse per sé e da mandare ai propri cari nel cosiddetto match-fixing, è piuttosto semplice. Basta promettere materiale tecnico, provini, per avere in cambio informazioni o dati utili per influenzare e interpretare meglio l’andamento delle quote. Da lì, il passo verso le vere e proprie combine è più che breve.
Tanti modi diversi di sfruttare buchi normativi, assenza di regole certe e il sostanziale immobilismo dei maggiori organi del calcio mondiale, per speculare sulle (poche) storie di grandi successi sportivi ottenuti da giovani fenomeni venuti dal nulla… e vendere sogni e illusioni.