di Angela Fais – Futurasocietà
Parliamo degli effetti dell’utilizzo indiscriminato di social e smartphone in età evolutiva.
È di qualche giorno fa la notizia che la Norvegia vuol portare l’età minima per iscriversi ai social a 15 anni, ritenendo che queste piattaforme arrechino nocumento alla salute mentale dei giovani. Il premier e la ministra della Famiglia hanno rilasciato alcune dichiarazioni degne di politici illuminati che, in realtà, trovano la loro giustificazione in una vastissima letteratura scientifica. Le conseguenze per i bambini e i ragazzi, infatti, sono devastanti.
A partire dal 2010, a livello internazionale, si riscontra un’impennata improvvisa dell’insorgenza di malattie mentali tra gli adolescenti. Tra il 2010 e il 2013 si ha la possibilità di accedere ai social tramite lo smartphone. In breve tempo questi dispositivi raggiungono la maggior parte delle famiglie americane e occidentali, dando a chiunque la possibilità di restare collegato continuamente.
Si è stimato che, nell’ambito delle tecnologie della comunicazione, questa invenzione abbia avuto la più rapida diffusione rispetto a qualsiasi altra precedente. Nello stesso periodo si assiste a un aumento di quei disturbi che in psichiatria vengono catalogati tra i “disturbi internalizzanti”, ossia ansia e depressione maggiore. Addirittura, si ha un aumento del 134% della prima e del 106% della seconda (fonte: Us National Survey on Drug Use and Health).
Cresce il tasso di suicidi, addirittura del 167% nelle femmine e del 91% dei maschi (fonte: Us centers for Disease Control, National Center for Injury Prevention and Control). Ma riscontriamo anche un corposo incremento di casi di Adhd e persino dei casi di schizofrenia. Crescono anche gli episodi di autolesionismo.
A ragione, alcuni clinici parlano di “grande riconfigurazione dell’infanzia” poiché si passa da un’infanzia basata sul gioco a una basata sul telefono: dal libero gioco fatto di adattamenti graduali e apprendimenti successivi, si passa a interazioni unicamente virtuali che de facto risultano veri e propri inibitori di quelle esperienze fisiche e reali che determinano la buona riuscita per un adattamento sociale funzionante.
Rispetto all’ “apprendimento per prove ed errori”, che si verifica durante il lungo apprendistato dell’infanzia, se ne sperimenta un altro conformato esclusivamente su due fondamentali strategie evolutive: conformità e prestigio. Si cerca di omologarsi agli altri per sopravvivere e somigliare a chi ha più successo.
I social media, in tal senso, sono il meccanismo di conformità più efficiente che sia mai stato inventato. Questo accade durante una fase nella quale il cervello, che già dai 5 anni di età ha raggiunto le sue dimensioni definitive, provvede a una sorta di sfoltimento selettivo: conserva solo le reti neurali usate più di frequente. Una riconfigurazione dell’infanzia che, in realtà, è anche una riconfigurazione del cervello.
È interessante, infatti, vedere cosa accade al nostro cervello quando usiamo lo smartphone. Sperimentazioni cliniche dimostrano che, somministrati dei problemi matematici e mnemonici, la sola presenza dello smartphone compromette la nostra capacità di pensare in modo profondo e riduce le capacità di problem solving nonché le risorse cognitive.
Le notifiche dello smartphone attivano i nostri programmi biologici: esse costituiscono un allarme in presenza di un ipotetico pericolo; coinvolgendo gli stessi circuiti neurali che nel cervello si attivano sin dalla notte dei tempi di fronte a stimoli per cui è in gioco la nostra sopravvivenza, fanno sì che la ghiandola surrenale produca continuamente adrenalina e cortisolo. Una produzione eccessiva di queste due sostanze determina ansia, mal di testa, depressione e insonnia.
La dipendenza che si innesca è in tutto e per tutto analoga a quanto accade con le droghe: ogni volta che usiamo lo smartphone, infatti, riceviamo rapidissimi feedback che il cervello interpreta come stimoli di piacere e, grazie al rilascio di neurotrasmettitori, come la dopamina o le endorfine, si struttura un rinforzo che ci porterà a cercare nuovamente quella sensazione, secondo un meccanismo messo a punto durante l’evoluzione per la sopravvivenza dell’individuo.
Si è visto che è sufficiente un’ora al giorno per cinque giorni in rete per riconfigurare il nostro cervello: l’uso di internet cambia i nostri circuiti neurali. L’attività cerebrale, mentre si naviga in rete, è due volte più intensa. Ma ciò ha un costo: si trascura altro e i circuiti neurali che non vengono usati alla lunga si cancellano, grazie alla plasticità del cervello.
Volutamente, i progettisti di Facebook hanno indotto una spirale di dipendenza. Sono stati resi pubblici degli screenshot di alcune presentazioni interne di Facebook durante le quali gli psicologi danno istruzioni su come tenere impegnati più a lungo gli utenti tramite ricompense, novità ed emozioni.
Si apprende che le ragazze, in particolare, riceverebbero un danno maggiore. Probabilmente a causa di un “confronto sociale sfavorevole” basato sulla competizione e su modelli malsani suggeriti dagli algoritmi, rispetto ai coetanei maschi che verrebbero, invece, danneggiati da altre piattaforme, videogiochi e pornografia.
Una delle didascalie rese note recita: “decisioni e comportamenti dei teenager sono principalmente guidati da emozioni, curiosità per le novità e ricompensa. Anche se sono cose positive, rendono i teenager molto vulnerabili. Soprattutto in assenza di una corteccia cerebrale matura che contribuisca a imporre dei limiti all’appagamento di questi desideri”. Quando riceviamo un like il circuito di ricompensa del cervello, come dicevamo, si attiva e rilascia la dopamina che ci spingerà ad accedere nuovamente sulla piattaforma. Ma, in assenza del like, resteremo in sua attesa e inizieremo a pubblicare nuovi post e a commentare i post degli amici, speranzosi di ottenerne degli altri.
Emerge, quindi, che del tutto scientemente è stata indotta una dipendenza tramite l’uso di quelli che in gergo si chiamano “programmi di rinforzo a rapporto variabile”. Sussiste, pertanto, una condotta pienamente dolosa; avendo sapientemente strutturato un condizionamento secondo un “programma di rinforzo a rapporto variabile” quando è noto sia che questo genere di programmi è coinvolto in molte dipendenze comportamentali, come gioco d’azzardo e uso della tecnologia, sia che tali programmi sono in grado di produrre i paradigmi più difficili da estinguere. Ciò rende difficilissimo agli utenti interrompere l’uso della piattaforma, tanto più se trattasi di minori. Si ricordi la dichiarazione del Ceo di Netflix: “Pensateci, quando guardate un video su Netflix, vi appassionate e restate svegli sino a tardi: siamo in competizione con il sonno”.
Tutto questo in barba al rispetto per l’infanzia che è totalmente abbandonata e alla deriva. In balia di “un capitalismo limbico” che, in una società dell’abbondanza consumistica, alimenta il mercato della gratificazione cerebrale, generando volutamente dipendenza a spese della salute mentale dei ragazzi e dei bambini. Sul modello della tossicodipendenza più conclamata si pongono le basi per una profonda infelicità.
Alla luce di tutto ciò sarebbe auspicabile che, a fronte di queste gravi emergenze, anche in Italia le istituzioni corressero ai ripari con provvedimenti ad hoc per normare e limitare l’uso di questi dispositivi anche e soprattutto in base all’età, e considerata la frequente incapacità dei genitori di sapersi imporre e dire di no nonostante si tratti del bene dei propri figli.
Articolo di Angela Fais
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