di Chiara Pepe
Riceviamo e volentieri pubblichiamo il commento di un’insegnante all’introduzione del registro elettronico nella scuola pubblica italiana.
Tra le tante innovazioni che si sono succedute vorticosamente negli ultimi anni in tema di istruzione, vi è la cosiddetta “dematerializzazione” delle procedure amministrative in materia di istruzione e ricerca e dei rapporti con la comunità dei docenti, degli studenti e delle famiglie: è stato introdotto un dispositivo digitale che sostituisce o affianca il tradizionale giornale cartaceo redatto dall’insegnante.
Nell’attuale ottica del pensiero unico economicistico che il trionfante neoliberismo impone e che sta destrutturando e stritolando la scuola pubblica nelle sue maglie sempre più strette, la diffidenza di alcuni lavoratori della scuola nei confronti di tali “rivoluzioni tecnologiche e tecnocratiche” è più che legittima, perché il problema che si pone non è certo soltanto legato all’introiezione di procedure informatiche e di abilità esecutive, ma è soprattutto squisitamente di natura pedagogica e sociale.
Oramai laddove c’è il registro elettronico, ai genitori basta consultare il video e leggere il voto in tempo quasi reale, disertando così spesso anche i colloqui con i docenti. La valutazione viene ridotta così a mera questione di numeri, in un’ottica che mortifica e banalizza le relazioni materiali e concrete, l’alleanza educativa tra la scuola e la famiglia, continuamente in divenire, da costruire e da condividere.
Viene a mancare così anche la relazione tra genitori e figli e quel vincolo di fiducia che con fatica si instaura, si edifica gradualmente, si conquista. Così facendo, si deresponsabilizza l’alunno, che eviterà di assumersi l’onere e il coraggio di comunicare ai genitori di aver preso un brutto voto, tanto è tutto rinvenibile all’istante e subito!
Si avvalora e si legittima, quindi, una débâcle educativa all’insegna di una pedagogia vacua, fatta già da tempo unicamente di “competenze” (senza conoscenze…), test standardizzati (Invalsi), prove “oggettive”, ossessione della misurazione e della quantificazione, raggiungimento, a tutti i costi, della massima omogeneità dei risultati ottenuti in una classe, in modo che l’indice di varianza risulti più basso possibile! (come se l’apprendimento fosse un processo meccanico e statico, senza tener conto dei molteplici fattori che intervengono e che concorrono a fare di ogni alunno un unicum!).
Per non parlare poi degli alunni diversamente abili, per i quali alcuni software del registro elettronico prevederebbero credenziali di accesso solo per i docenti di sostegno, quasi a ghettizzare ed isolare dalla classe l’ “Altro”, il “Diverso” dalla massa e colui o colei che cura la relazione con l’Altro. Ma sì, torniamo pure a 50 anni fa quando c’erano le classi differenziali, con buona pace della legge 517/77! Un’aberrazione da colpo apoplettico!
Chi lavora a scuola sa benissimo che bisogna salvaguardare e custodire la materialità delle relazioni educative, che sono incontro, contatto e dialogo, non certo un rapporto online.
Non bisogna farsi fagocitare da questi mostri tecnonichilisti e tecnocratici, che, tra le altre cose, potrebbero non garantire la sicurezza dei dati e la privacy di ogni studente, in quanto sistemi hackerabili da chi ha dimestichezza con la tecnologia, ma tenere sempre viva l’attenzione sulla centralità dell’educazione, della cultura e della formazione morale e intellettuale delle giovani generazioni.
La scuola non dovrebbe formare futuri individui amorfi, da schiavizzare in qualche grande azienda, sottopagati e vilipesi, ma cittadini consapevoli del fatto che la loro pelle non merita d’essere venduta in nome di nessun dio profitto!
Articolo di Chiara Pepe