di Rodolfo Casadei
Commento filosofico-psicanalitico al nuovo limite di velocità introdotto dal sindaco di Bologna Matteo Lepore, perfetta conseguenza politica dello spirito moderno.
Chiamato a giustificare in tivù la decisione di imporre il limite di velocità di 30 km/h nella maggior parte della rete stradale comunale, il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha evocato alcuni recenti casi di incidenti in cui pedoni avevano perso la vita sulle stesse strade dove ora viene imposto il nuovo obbligo. Col recente provvedimento l’amministrazione bolognese intende ridurre il numero e la gravità degli incidenti stradali con conseguenze mortali o altamente invalidanti, ed è sicura di ottenere tale risultato, perché le statistiche dei luoghi del mondo dove la limitazione ai 30 kmh per i veicoli è già in vigore da tempo, mostrano una flessione nel numero dei decessi da incidente stradale.
Sui social i favorevoli al provvedimento portano l’argomentazione all’estremo: anche se dovesse salvare una sola vita umana, il divieto dei 30 km/h è giustificato, perché una singola vita umana vale più di qualunque altra cosa. Ne discende che chi è contrario al provvedimento e non permette che sia introdotto nella città dove vive, è moralmente responsabile della morte a venire di pedoni e ciclisti. Ne discende anche che chi è contrario deve sentirsi in colpa, perché antepone la propria libertà di viaggiare ai 50 km/h in città alla sicurezza di anziani, bambini, mamme, ciclisti, ecc.
30 km all’Ora? Non Basta… Tutti a Piedi!
Così però l’argomentazione non è portata abbastanza all’estremo. Proviamo a farlo noi: se proibissimo alle auto e ai camion di viaggiare in città, e affidassimo tutti gli spostamenti di persone e merci a mezzi pubblici sotterranei o di superficie lentissimi, non avremmo nemmeno un pedone o un ciclista morto per incidente stradale; se portassimo il limite di velocità a 50 km/h sulle autostrade, ridurremmo al minimo gli incidenti mortali o con gravi conseguenze per i viaggiatori; se abolissimo le gare di velocità di auto e moto, se proibissimo gli sport estremi come il deltaplano o l’ultraleggero, il rafting o il paracadutismo, se vietassimo le scalate dell’Himalaya, se contingentassimo le escursioni sull’arco alpino, se impedissimo ai bagnanti di immergersi nelle acque dove sono presenti gli squali, risparmieremmo certamente vite umane.
E se proibissimo l’alcol, i cibi grassi e gli zuccheri, e ovviamente il fumo, quanti anni di vita sana in più garantiremmo agli esseri umani! Se svuotassimo osterie e pub, se trasformassimo in parche mense le tavolate di allegri mangioni, quante vite umane allungheremmo! Milioni di minuti di vita strappati alla morte. Che andrebbero d’altra parte consumati nei viaggi ai 30 all’ora…
Fino a che Punto è Giusto Limitare la Libertà?
La discussione era già sorta al tempo delle proibizioni legate al Covid: fino a che punto è giusto spingersi nella limitazione delle libertà dei cittadini per tutelare gli stessi dall’ipotetica morte in conseguenza di “contagio”? Giorgio Agamben aveva criticato l’eccesso di limitazioni che le autorità stavano imponendo, eccependo che così si riduceva l’esistenza umana alla “nuda vita”, “cioè una vita che non è né propriamente animale né veramente umana”.
Lo psicanalista Mario Binasco aveva messo in guardia rispetto al fondo patologico delle richieste di garanzia contro la morte: “Il fatto che l’esito mortale della malattia sia poco probabile se calcolato sull’insieme di tutta la popolazione, lascia intatta la sua possibilità per ciascun individuo, che deve perciò soggettivamente fare i conti con questa possibilità. Ma questa possibilità è impossibile da eliminare, come quella di ogni pericolo connesso con la vita, specialmente quella sociale. La ‘sicurezza’, perciò, è impossibile se la si cerca o la si aspetta dal lato della realtà, perché nella realtà non cessa di esserci pericolo. E se qualcuno volesse questa ‘sicurezza’ come condizione per poter poi agire e vivere, non agirebbe né vivrebbe mai: ‘farebbe il morto’ per evitare di andare incontro al pericolo di morte. Questa è la stessa posizione soggettiva di chi ha sintomi e comportamenti che chiamiamo ossessivi ed evitanti: solo che di solito chi soffre di questi sintomi li sente come un disturbo della propria vita e può chiedere ad uno psicoanalista o altro terapeuta di aiutarlo ad uscire da questo tipo di paralisi o di vicoli ciechi”.
L’Impossibile Sicurezza di Evitare la Morte
Nel caso delle limitazioni legate al Covid come ora nel caso del divieto di velocità superiori ai 30 km/h, a perseguire la impossibile sicurezza di evitare la morte non sono masse di cittadini nevrotici, ma le autorità pubbliche. Se si tenesse un referendum sull’introduzione dei 30 all’ora in tutte le città d’Italia, oppure nella sola Bologna per confermare o abrogare il provvedimento appena introdotto, quasi certamente prevarrebbero i contrari. Prevarrebbe cioè la posizione di chi pensa che per vivere davvero occorre mettere in gioco la vita (propria e altrui, indubbiamente) rispetto a chi pensa che desideri e libertà meritano di essere repressi per garantire il persistere della vita.
La cosa non deve stupire: è una conseguenza politica dello spirito moderno. Lo spirito moderno, la cui prima manifestazione letteraria Alain Finkielkraut individua nel quattrocentesco Aratore di Boemia di Johannes von Tepl, consiste nella ribellione alla morte, vista non più come la porta d’ingresso nell’Eternità (“Io non muoio, entro invece nella Vita”, potrà ancora dire quasi cinque secoli più tardi Teresa di Lisieux), ma come ciò che distrugge tutto ciò che di bello e amabile offre la vita (nel caso del contadino boemo: la sua diletta moglie).
La medicina e lo Stato moderno nascono da questa “criminalizzazione” della morte: l’assolutismo di Thomas Hobbes così come il welfare State, la dissezione dei cadaveri così come la dichiarazione di morte cerebrale in vista del trapianto, innovazioni che hanno segnato una rottura con la visione religiosa della politica e del corpo umano propria delle epoche che le hanno precedute, sono la risposta alla protesta per la morte inescusabile di Margaretha, la giovane moglie del contadino che dibatte con la Morte e che chiama a giudice della disputa Dio in persona.
Meno Libertà in Cambio del Rinvio della Morte
Per quanto riguarda lo Stato e la politica, l’abbandono della visione classica e cristiana della vita e della morte è graduale, e passa attraverso la secolarizzazione delle idee di sacrificio e di redenzione: la patria e il socialismo richiedono ancora al singolo cittadino o lavoratore proletario di offrire la propria vita fino al sacrificio supremo, nella lotta contro il nemico o contro il capitale, per il bene rispettivamente di chi continua a vivere e di chi vivrà. Occorre immolarsi per le terre irredente della nazione o perché i pronipoti possano godere della perfetta giustizia sociale, nella terra dove a ciascuno sarà dato secondo le sue necessità e sarà chiesto secondo i suoi mezzi (non a caso Marx ha ripreso la formula dagli atti degli Apostoli).
Ma una volta che la morte è stata ridotta a ciò che immediatamente appare, cioè consumazione e annullamento, cioè avvento del nulla, del privo di senso, per contrappunto la vita diventa tutto ciò che può e deve essere affermato e preservato. Se con la morte finisce tutto, ha ragione John Lennon: nel mondo ideale non deve esserci spazio per niente per cui valga la pena uccidere o essere uccisi, nothing to kill or die for… Quindi meglio rossi che morti, meglio islamizzati che morti, meglio confinati in casa che morti, meglio i 30 km/h che morti.
Lo Stato, il potere politico, fanno fino in fondo quello per cui il cittadino ha accettato di consegnare loro la sua libertà, in grado ogni giorno crescente. Sempre meno libertà in cambio di una vita sempre più lunga, in cambio di un rinvio dell’ineluttabile evento della morte. Sperando che un giorno la medicina posso recare la sensazionale notizia…
Non Vivere per Paura di Morire Provoca Psicosi
Ma c’è un problema. La rinuncia al desiderio provoca depressione. Non vivere per paura di morire o di causare sofferenza ad altri, porta a ogni genere di nevrosi, in qualche caso psicosi: l’alto tasso di disturbi mentali e di suicidi fra gli adolescenti che sono passati attraverso i confinamenti del Covid in tutti i paesi occidentali, è un indizio molto serio.
Anche in questo caso ci illumina Binasco. Quel che scrive a proposito dei confinamenti legati alla paura del contagio da Covid si può applicare a tutta la proliferazione di provvedimenti restrittivi delle autorità “a tutela della vita”: “(…) Il reale sul quale qualcuno prima o poi aprirà gli occhi svegliandosi dall’ipnosi, sarà il conto che ci presenteranno tutte le esigenze, i desideri e gli interessi realmente vitali sui quali abbiamo ceduto, che non abbiamo potuto/voluto far entrare in gioco, che abbiamo sacrificato all’imperativo dell’Unica Grande esigenza – ahimè solo negativa – quella di evitare a tutti i costi il contagio.
Sono proprio tutti questi costi che, direbbe Lacan, ‘rigettati dal simbolico’, cioè non presi in conto, ‘ritorneranno nel reale’. (…) Possibile che non ci siano effetti del senso di colpa che sempre accompagna la rinuncia al desiderio? E che oltre agli effetti inconsci depressivi o melanconici, non vi siano reazioni rabbiose al senso di colpa consapevole per aver accettato di fare questa rinuncia? Infatti, per quanto le persone possano pensare, anche giustamente, di essere state costrette da altri a questa rinuncia, il soggetto ‘sa’ sempre di avere quanto meno collaborato all’imposizione, di “esserci stato” ad essa, proprio per devozione all’autorità”.
Chi ci salverà dalla tenaglia del duplice senso di colpa, quello per aver messo in pericolo la vita altrui col nostro egoistico rifiuto dei 30 km/h e quello opposto di aver permesso alle autorità di imporci i divieti che hanno spento in noi il desiderio? Solo chi ci guarda senza moralismi. Solo chi abbraccia il nostro limite.
Articolo di Rodolfo Casadei
Fonte: https://www.tempi.it/bologna-30-km-h-certezza-evitare-morte/