di Giulio Virgi
È ormai diventato un luogo comune paragonare ad una guerra vera e propria la battaglia in corso contro il Coronavirus.
Non tutti ritengono che si tratti di un’immagine appropriata, non essendo fortunatamente presenti, almeno per ora, alcune caratteristiche fondamentali dei conflitti. Manca soprattutto il ricorso alla violenza di massa organizzata dagli Stati, che provoca estese distruzioni e l’uccisione di un gran numero di persone. Eppure alcune analogie sono evidenti: con la guerra, infatti, questa epidemia in atto condivide diverse caratteristiche importanti.
Innanzitutto, c’è la paura: una paura fisica che riguarda in primo luogo l’incolumità e la sopravvivenza personale. Non ci si spara, ma molti comportamenti individuali riflettono il sospetto nei confronti di chiunque s’incontri, in quanto potenziale portatore di una minaccia tanto concreta quanto invisibile.
Il carattere esistenziale della sfida ha quindi rapidamente raggiunto l’ambito comunitario e quello politico, imponendo adattamenti importanti dei comportamenti alle necessità straordinarie del momento, ed aprendo la via ad una stagione di cambiamenti rapidi. Sotto la spinta di un timore diffuso spesso prossimo al panico, ciò che era impossibile è improvvisamente diventato possibile.
Molte nazioni, incluse alcune fra quelle tradizionalmente più aperte nei confronti del resto del mondo, hanno riscoperto in pochi giorni di essere sole o quanto meno di non potersi sempre fidare neanche dei propri amici ed alleati. Si è attenuata anche la fiducia assoluta nel potere del denaro, perché di fronte al Covid-19 non sono stati pochi i paesi che hanno anteposto l’imperativo della sicurezza al rispetto delle obbligazioni contrattuali.
L’Italia non ha ricevuto mascherine che aveva comprato in Germania e la Repubblica Ceca ha bloccato a sua volta una fornitura di beni essenziali alla lotta contro il coronavirus che il Bel Paese aveva regolarmente acquistato. Per lo stesso motivo, le stesse autorità italiane hanno impedito l’esportazione verso la Grecia di prodotti ormai divenuti “sensibili”.
Il questo clima, è stato rivalutato un passo di Adam Smith, secondo il quale il mercato e la sua mano invisibile avrebbero dovuto fermarsi ogni qual volta le esigenze della sicurezza e della difesa lo avessero richiesto. Le necessità del momento stanno modificando in profondità e velocemente molti paradigmi considerati solidissimi fino a poche settimane fa, con risultati semplicemente stupefacenti. Due eventi, in particolare, spiccano per il loro carattere simbolico ed il fatto di essersi verificati simultaneamente.
Il primo è certamente rappresentato dall’arrivo in Italia di un contingente medico-militare russo. Spinto dalla gravità dell’emergenza sanitaria in alcune regioni del Bel Paese, il governo di Roma ha infatti rotto gli indugi, accettando un’offerta di aiuti che Mosca aveva posto sul tavolo fin dallo scorso febbraio, all’indomani della riattivazione dei vertici bilaterali italo-russi a livello di Ministri degli Esteri e della Difesa.
Il 25 marzo, conseguentemente, diversi aerei da trasporto appartenenti alle forze armate russe sono atterrati all’aeroporto militare di Pratica di Mare, con un carico importante di uomini e materiali, che sono stati avviati in convoglio lungo la rete autostradale che percorre l’Italia. Molti automobilisti italiani hanno riconosciuto le bandiere russe sui mezzi, documentando con propri video amatoriali poi postati sui social, il transito dei camion, evidentemente percepito come un evento straordinario anche dalle persone normalmente poco attente ai grandi temi della politica internazionale.
La vista di un corteo militare russo nella penisola è in effetti un simbolo potente dei mutamenti che il Covid-19 sta generando. La sua portata può essere compresa ancor meglio se si tiene presente che a gestire l’intera operazione per l’Italia è stato proprio il Ministero tradizionalmente più vicino agli Stati Uniti, quello della Difesa. È da ritenere certo che gli americani siano stati preavvisati della decisione italiana di accettare gli aiuti russi. E non si è notato alcun segno di resistenza a questa mossa di Roma.
È probabile che a Washington non se la siano sentita di impedire all’Italia di ricevere sostegni esterni in un momento tanto critico per la sua salute pubblica, nel quale oltretutto gli Stati Uniti non sembrano disporre di molte capacità da offrire, alle prese come sono con il virus anche loro.
Ma non è da escludere che gli americani abbiano accettato la presenza temporanea dei militari russi nel Bel Paese anche come potenziale fattore di contenimento della crescente influenza cinese a Roma, che è da tempo monitorata con grande inquietudine dai diplomatici statunitensi accreditati in Italia.
Dal canto loro, le autorità russe hanno opportunamente precisato che gli aiuti sono stati concessi senza alcuna particolare condizione: il portavoce Peskov ha esplicitamente affermato di non attendersi alcuna novità da parte italiana, neanche a proposito del rinnovo delle sanzioni che ormai limitano da sei anni i rapporti economico-commerciali tra la Russia e l’Europa occidentale. Ha così rassicurato l’America mentre comunque cadeva un tabù.
L’Italia non uscirà quindi dalla Nato, ma quanto accadrà a Bergamo e dintorni, dove il contingente russo è stato immediatamente inviato, potrà contribuire moltissimo a modificare le percezioni reciproche di russi ed occidentali, preparando forse nuove architetture di sicurezza e magari restituendo forza a progetti che il presidente Trump ha dovuto per ora accantonare a causa della resistenza incontrata nel suo paese.
L’altro fatto nuovo si è prodotto nell’Unione Europea e riguarda alcuni elementi portanti della sua attuale configurazione: sotto la spinta della crisi sanitaria, infatti, è saltato il Patto di Stabilità che era l’architrave del rigore economico comunitario. Anche la riforma del cosiddetto Fondo salvastati ha segnato il passo.
Dell’inversione di questo paradigma, si è fatto interprete ed araldo proprio un italiano, Mario Draghi, che dalle colonne del Financial Times ha indicato la strada da imboccare per uscire dalla palude ed evitare che lo shock del Covid-19 si trasformi in una profonda recessione: si dovrà creare debito, tanto debito, per ridare fiato alle economie che sono state messe in quarantena. L’ex banchiere centrale europeo ha altresì affermato che occorrerà cancellare anche del debito privato, delineando così un programma economico-sociale fortemente progressista che implicherebbe un’importante redistribuzione del reddito ovunque venisse attuato. L’impatto è stato notevole. Si è avvertito innanzitutto in Italia, inducendo il presidente del consiglio Giuseppe Conte a cambiare decisamente la propria postura in Europa. E per il tramite italiano ha raggiunto anche il cuore delle istituzioni comunitarie. (Vediamo se a tutto ciò, tuttavia, seguiranno i fatti, o se sarà l’ennesima presa per i fondelli ai danni degli italiani – n.d.r.)
È paradossale che ci sia voluta una pandemia per restituire al buon senso lo spazio che merita nella politica internazionale e nella gestione dell’economia. Latitava da tanto. Ma succede spesso durante le guerre, quando si progetta la pace che verrà. In questo caso, potrebbe coincidere con un mondo nuovo, in cui Occidente e Russia riprendono a dialogare e l’Europa torna ad occuparsi di sviluppo. C’è speranza, persino nel buio di questi giorni.
Articolo di Giulio Virgi
Rivisto da Conoscenzealconfine.it