L’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o WTO), dominata dai paesi più ricchi e dalle multinazionali, ha imposto un genere di globalizzazione penalizzante per chiunque voglia fissare dei paremetri minimi di benessere animale, di rispetto dell’ambiente e della salute dei consumatori.
L’OMC vieta infatti a tutti i paesi firmatari di fissare delle regole sulle importazioni sulla base dei PMP (Processi e Metodi Produttivi). In questo modo, chiunque fissi degli Standard di qualità all’interno del proprio paese, non potrà evitare che prodotti di altri paesi, fabbricati senza alcuna regola e quindi a costo più basso, invadano il mercato interno, vanificando così la regolamentazione locale.
La globalizzazione fa sì che animali vivi e morti vengano importati da – ed esportati verso – paesi molto lontani tra loro geograficamente, contribuendo così alla grande sofferenza legata al trasporto di animali vivi e all’enorme consumo energetico necessario per il trasporto. La carne si compra ogni giorno dove il mercato è più conveniente, senza tener conto degli sprechi di risorse che questo comporta.
L’Italia è il maggior importatore europeo di bovini vivi, ed è al terzo posto nell’importazione di carne bovina (cioè di animali già ammazzati).
L’Italia importa inoltre mangimi vegetali, per un totale di 1.000 miliardi di saldo commerciale negativo in questo settore, e di 4.000 miliardi di saldo negativo per quanto riguarda i prodotti della pesca e l’acquacoltura.
La globalizzazione ha portato anche a una perdita di biodiversità, perché oggi in tutto il mondo si coltivano solo poche specie vegetali. Le varietà di piante commestibili usate dall’uomo nell’arco della storia, sono tra le otto e le novemila. Oggi se ne coltivano solo 150, e dodici di queste, da sole, provvedono all’80% dell’alimentazione umana.
I semi di queste piante spesso sono degli ibridi, e rappresentano un grande business per le multinazionali, che li vendono a caro prezzo e spesso sotto protezione della proprietà “intellettuale” con vari nomi e marchi caratteristici. Si ha anche un effetto negativo sulla biodiversità e sulla preziosa costituzione di “ecotipi” selezionatisi in situ e quindi perfettamente adatti all’ambiente in cui vengono coltivati, secondo il tradizionale schema di utilizzare i semi prodotti l’anno precedente. Con gli ibridi, invece, non conviene ripiantare i semi di anno in anno, perché perdono la presunta maggiore produttività, ma occorre ogni anno acquistare il quantitativo necessario per la semina presso le multinazionali, senza dimenticare che necessitano mediamente di maggiori input di fitofarmaci e fertilizzanti. Con l’arrivo delle sementi transgeniche, sulle quali esistono forme di protezione della proprietà intellettuale che si avvicinano al brevetto, tutto questo peggiorerà ulteriormente perché per queste è “concessa” una licenza annuale che ne vieta il riutilizzo non autorizzato…
Fonte: http://www.saicosamangi.info/economia/globalizzazione-biodiversita.htm