Fast Fashion: l’impatto ambientale della moda

di Paolo Amato

Il settore della moda e del tessile rappresenta la seconda industria più inquinante del mondo, seconda soltanto a quella del petrolio.

Moda e impatto ambientaleDall’acquisizione delle materie prime, passando per la produzione tessile, fino ad arrivare allo smaltimento del prodotto, l’impatto ambientale della fast fashion e del ciclo produttivo dei prodotti della moda è molto alto.

Sostanze chimiche ed inquinanti legati ai prodotti della moda

Secondo il Fashion Danish Institute, un quarto di tutte le sostanze chimiche prodotte in tutto il mondo sono utilizzate nel settore tessile. Molte di queste si presentano sotto forma di poliestere e altre fibre sintetiche che richiedono grandi quantità di petrolio grezzo. E non è finita: nomi complicati quali ftalati e formaldeide nascondono una subdola minaccia anche per la nostra salute. Secondo uno studio realizzato dalla UE (Study on the link between Allergic Reactions and Chemicals in textile products), il 7-8% delle patologie dermatologiche è dovuto a ciò che indossiamo.

La produzione di queste fibre sintetiche emette nell’atmosfera particelle e gas come CO2, ossido di diazoto (con un potenziale di riscaldamento globale 310 volte superiore a quello dell’anidride carbonica), idrocarburi, ossidi di zolfo e altri sottoprodotti. Gli impianti di produzione rilasciano anche composti organici volatili e solventi in corsi d’acqua.

Le conseguenze del fast fashion

Il processo d’imitazione delle grandi case di moda, meglio noto come “fast fashion”, ha inevitabilmente fatto crescere, negli ultimi venti anni, il problema in maniera esponenziale. Arrivare a produrre una decina di collezioni in un anno, rispetto alle classiche “primavera-estate” e “autunno-inverno” delle case di moda, ha comportato un aumento della produzione tessile, una notevole diminuzione dei prezzi e, infine, una minore consapevolezza da parte dei consumatori.

La domanda di fibre tessili cresce circa il 3-4% ogni anno, a causa dei trend globali di crescita della popolazione (Fonte: The Fiber Year Consulting) . Entro il 2020, la domanda mondiale di fibre dovrebbe superare i 100 milioni di tonnellate e il dominio del fast fashion ha portato alle stelle la domanda di fibre a basso costo: a partire dal 2007, il poliestere è diventato, infatti, la fibra più diffusa per l’abbigliamento. Questo è un problema non solo perché le fibre sintetiche non sono biodegradabili, ma perché l’aumento di materiali sintetici sta permettendo la crescita della cultura del “consumo di moda”, una moda non sostenibile.

Nell’edizione del 2015 del Festival di Cannes è stato presentato un documentario americano dal titolo “The True Cost”, diretto dall’americano Andrew Morgan e co-prodotto da Livia Firth, moglie dell’attore Colin Firth. Una serie di interviste con economisti, psicologi del consumismo e giornalisti impegnati nella giustizia sociale, ci racconta come l’uomo, a volte, è il peggior nemico di se stesso. Ma soprattutto, che la domanda di acquisto globale è 400 volte maggiore a quella di venti anni fa! Chi ha visto questo film, non guarderà più un vestito come prima.

Slow fashion: ridurre il consumo è possibile

Fast fashionDiminuire la velocità della creazione, il consumo e lo smaltimento, riflettendo di più sui propri acquisti, valutare i metodi di lavorazione, considerare la provenienza dei materiali e la loro qualità, assicurarsi che i diritti dei lavoratori tessili siano rispettati: questo è lo slow fashion.

In realtà, esso dovrebbe tentare di rallentare non tanto i produttori quanto i consumatori, poiché sono questi ultimi a dettare le leggi del mercato. Tra le azioni intraprese dai vari protagonisti del settore moda, tra le più convincenti e determinanti c’è la Fashion Revolution Week.

Nata in Gran Bretagna dopo la strage del 24 Aprile 2013 a Dhaka (Bangladesh), dove 1133 operai morirono per il crollo della Rana Plaza Factory Complex, la Fashion Revolution Week, si svolge in 86 Paesi del mondo.

«Piccoli gesti possono fare una grande differenza – spiega Marina Spadafora, coordinatrice della rassegna italiana dell’evento, in un’intervista rilasciata alla rivista Marieclaire.it – quindi anche il semplice chiederci: “Chi ha fatto i miei vestiti?” può determinare un nuovo modo di scegliere ciò che acquistiamo e magari può incoraggiare chi crea la moda a farlo in maniera più responsabile. Vogliamo creare, soprattutto nei giovani, una maggiore consapevolezza riguardo le abitudini e l’impatto che i nostri acquisti hanno sulla società e sull’ambiente.

Solo quando il consumatore finale esigerà trasparenza e comportamenti etici dalle aziende da cui acquista, si potrà vedere un cambiamento profondo, dettato dalla domanda del mercato per prodotti sempre più sostenibili. Ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio, ogni momento è buono per iniziare a farlo».

L’edizione 2017 si svolgerà a Milano dal 24 al 30 Aprile, con eventi e iniziative volte a promuovere e sostenere un unico e grande messaggio: quello di giustizia ed equità nei confronti dei lavoratori dell’industria tessile di tutto il mondo, cercando di creare fliere etiche, giuste e trasparenti.

Facile, veloce e poco costoso: questa è la mentalità degli “shopper” di oggi. Ma è importante comunicare ai consumatori le conseguenze di questa nuova tendenza, imparare ad essere scrupolosi, leggere le etichette, fare attenzione ai materiali di cui sono fatti i nostri abiti, ragionare sulla loro provenienza, proprio come abbiamo imparato ad approcciarci al cibo. Le nostre madri, quando da piccoli ci compravano un cappotto, sapevano che sarebbe durato sei/sette, forse anche dieci anni. I vestiti oggi non vengono più concepiti né prodotti in questo modo. Nulla più è fatto per durare.

Articolo di Paolo Amato

Fonte: architetturaecosostenibile.it

MADE IN ITALY - IL LATO OSCURO DELLA MODA ITALIANA  —
Ecco cosa si nasconde dietro questo business miliardario
di Giò Rosi

Made in Italy - Il Lato Oscuro della Moda Italiana —

Ecco cosa si nasconde dietro questo business miliardario

di Giò Rosi

Se stai per comprare un capo Made in Italy, pensa...
Pensa a come è stato fatto, da chi, dove, in quali condizioni e perché...
Pensa a quanto lo stai pagando e a quanto è costato a chi lo ha prodotto...
Pensa a chi lo ha fatto per te e cosa ci ha guadagnato...
Pensa a cosa è, davvero, il Made in Italy

Non saprai il vero nome dell'Autore di questa inchiesta; ma saprai che quello che racconta è tutto vero, perché lo ha visto, lo ha vissuto, ha collaborato, ha incontrato, ha parlato con le persone che realizzano e rappresentano il Made in Italy

La schiavitù esiste ancora, nelle fabbriche cinesi ma anche nel cuore della vecchia Europa. Gli schiavi del terzo millennio non sono servi della gleba, né prigionieri dei gulag staliniani: sono lavoratori della moda, di un'industria che confeziona lussuosi capi di abbigliamento per le vetrine delle nostre eleganti boutique. Sono esseri umani immolati sull'altare del capitalismo globalizzato, costretti dalla miseria a lavorare senza diritti, senza tutele, senza le minime libertà. Solo perché la loro forza lavoro costa meno di quella italiana, perché hanno avuto la sfortuna di nascere in nazioni ancora lontane dal potersi definire democratiche, e perché qualcun altro possa arricchirsi velocemente. Ma la responsabilità di questo sistema non è solo dei loro compatrioti aguzzini, bensì di molti stilisti e manager della moda italiana.

"Made in Italy" racconta un mondo di intollerabile miseria e sopraffazione, e lo fa con completa cognizione di causa, poiché l'autore (che scrive, come è ovvio, sotto pseudonimo) lavora da anni in questo settore, ha conosciuto carnefici e vittime, ha visto con i propri occhi gli squallidi luoghi in cui si produce gran parte del nostro lusso. Con l'indignazione di un pamphlettista, il talento di un inviato, il gusto del racconto di un romanziere, Giò Rosi ci accompagna nelle fabbriche di uno Stato fantasma fondato sull'illegalità chiamato Transnistria, poi in Romania (dove, se i cittadini rumeni pretendono troppo, si possono sempre importare operai dalle zone più povere dell'Asia), poi ancora in una prigione bulgara convertita in fabbrica senza che si noti troppo la differenza, e in molti altri luoghi ancora.

Dopo aver letto questo libro, sarà più difficile comprare certi costosi capi "firmati" facendo finta di niente. Alla ribellione morale si aggiungerà l'amara consapevolezza che questo vergognoso mercato di esseri umani non solo favorisce i calcoli di imprenditori senza scrupoli, ma danneggia l'intera industria italiana e il consumatore, convinto di pagare artigianato di valore mentre compra merce scadente. Sotto la griffe si nasconde l'antica realtà dell'avidità umana.

Questo è un libro "difficile" perché mette sotto accusa il mondo della moda italiana, il nostro Made in Italy. L'autore lavora da moltissimo tempo nel campo dell'alta moda, e ai più alti livelli, e dopo anni in cui ha visto di tutto ha deciso di "vuotare il sacco". Quello che racconta è impressionante non solo per la portata, la dimensione, la ramificazione, ma soprattutto per il fatto che si tratta di un fenomeno del tutto ignoto e ignorato, di un mondo sconosciuto, che sembra irreale. È un atto d'accusa, un pugno nello stomaco. Un reportage scritto con un linguaggio schietto, accorato, aperto, con una passione che mostra l'urgenza sentita nel dover raccontare. Raccontare una sequela di episodi raccapriccianti per la loro brutalità semplice, ordinaria, disumana...

Anteprima Made in Italy - Il Lato Oscuro della Moda Italiana LIBRO di Giò Rosi

Ho avuto modo di vedere questa situazione sul nascere, ero sul posto quando si costruivano le strutture per allocarvi le linee di produzione, con i macchinari sistemati dentro gli alloggi. Dopo un primo incontro che ebbi con il titolare, durante il quale mi portò a vedere l'inizio dei lavori, passarono pochi mesi e quando mi ritrovai laggiù, lo spettacolo che si presentava ai miei occhi era davvero stupefacente. Linee di produzione perfettamente efficienti. Catene e catene di macchine per cucire di diverso modello a seconda della fase e dell'operazione da effettuare e su ognuna di queste uno schiavo, maschio o femmina. Per lo più donne cinesi e uomini cingalesi, bengalesi o indiani.

Fra queste catene di produzione si muoveva instancabile una direttrice di reparto, credo fosse di Bergamo. Passi rapidi e dito sempre puntato a riprendere, a correggere, a spronare. Una furia.

Scopro che su questa gente viene effettuata anche una specie di "selezione genetica": i ruoli vengono addirittura assegnati a seconda delle caratteristiche morfologiche degli individui che devono realizzare le molteplici operazioni industriali.

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