Intervista ad Alessandro Fiore*
L’introduzione della “teoria di genere” contrasta semplicemente con il senso più alto, naturale ed universale di giustizia.
D: Dott. Fiore, ProVita il 15 settembre è stata sentita presso la Commissione Cultura della Camera dei deputati, riguardo le varie proposte di Legge relative all’introduzione nel sistema scolastico italiano della cosiddetta «Educazione di Genere», ci vuole spiegare in che consiste questa «educazione»?
R: In realtà è abbastanza difficile saperlo, in quanto – come abbiamo notato durante la nostra audizione alla Camera – la concezione di “genere” è intrinsecamente ambigua. In ogni caso, è certo che la cosiddetta “educazione di genere” introduca nel sistema scolastico una nuova prospettiva basata su temi estremamente controversi e su presupposti ideologici, che annullano la rilevanza del sesso biologico su ogni comportamento e ruolo sociale, e sanciscono il primato della percezione soggettiva per quanto riguarda la profonda identità sessuale della persona.
D: Il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, ha postato quest’estate su Facebook il seguente commento: «Educazione di genere significa educare al rispetto delle differenze per prevenire violenza e discrimine. Non altro». Lei concorda con questa affermazione che poi è la linea di questo governo?
R: Trovo che molti membri del Governo, e persino alcuni proponenti delle proposte di legge sull’educazione di genere, siano poco informati sulla questione. La dichiarazione di Faraone è a questo proposito emblematica. Non so se sia in buona fede oppure sia semplicemente una mossa per tranquillizzare l’opinione pubblica (del resto, ciò ha poca rilevanza): in ogni caso la dichiarazione confonde le finalità educative con la prospettiva educativa.
Le finalità – o forse i pretesti – dell’educazione di genere potrebbero ben coincidere, in parte, con la prevenzione della violenza e della discriminazione, e con il rispetto delle differenze. Il problema è: quali mezzi e quale prospettiva si adottano nell’intento di perseguire quelle finalità? Non possiamo indottrinare gli studenti all’ideologia, solo perché speriamo di ottenere qualche effetto positivo.
La prospettiva non è neutrale e condiziona persino il modo di intendere le finalità. Qualche esempio: secondo la prospettiva di genere, la concezione del matrimonio come unione tra un uomo e una donna – riconosciuta dalla Costituzione – può essere considerata “discriminatoria” verso le persone omosessuali; il riconoscimento del sesso di una persona secondo quello che manifesta la sua biologia, potrebbe essere considerato “discriminatorio” verso una persona che si “percepisce” soggettivamente come appartenente al genere opposto (“transgender”). In altre parole, l’educazione di genere cambia persino il modo di intendere la “discriminazione” e il “rispetto”: quello che, secondo un’impostazione ragionevole, è semplicemente il riconoscimento di un ordine naturale, assolutamente compatibile con il rispetto verso tutte le persone, viene ideologicamente trasformato in “discriminatorio” ed “irrispettoso”.
D: A livello europeo quale è la posizione dell’UE al riguardo? Anche in questo caso potremmo dire “ce lo chiede l’Europa”?
R: A prescindere dal fatto che – di questi tempi – l’argomento “ce lo chiede l’Europa” potrebbe ben rivelarsi un argomento “boomerang”, nei Trattati si parla di uguaglianza tra uomini e donne, e l’Unione è intervenuta diverse volte per realizzare questa uguaglianza in diversi settori, tuttavia nel diritto UE non esiste un vincolo giuridico per gli Stati membri di introdurre nel sistema scolastico la prospettiva di genere.
Quando parliamo della prospettiva di genere, è necessario allargare lo sguardo oltre l’UE, in quanto hanno grande peso le posizioni del Consiglio d’Europa: questo organismo internazionale ha sposato in alcune sue recenti Risoluzioni (non vincolanti), una prospettiva di genere abbastanza radicale. E tuttavia, anche in questo caso, dalla Convenzione di Istanbul fino ad oggi, non si può dire che ci sia un obbligo internazionale di adottare la prospettiva di genere nelle scuole, viste le riserve degli Stati membri in materia, anche in sede di firma della predetta Convenzione, e visto, soprattutto, che l’introduzione della teoria di genere contrasta semplicemente con il senso più alto, naturale ed universale di giustizia.
D: In quale nazioni europee e anche extra Ue si sta maggiormente diffondendo questa “politica di genere” nelle scuole?
R: Tra le nazioni europee ricordiamo la Svezia, la Gran Bretagna e – più di recente – anche la Spagna. Mentre fuori dall’Europa grandi contrasti a questo proposito sorgono in alcune nazioni del Sud America e negli Stati Uniti. Ricordiamo pure che in alcuni paesi meno sviluppati sta avvenendo una vera e propria “colonizzazione ideologica” che vede ricche organizzazioni occidentali, e persino ambasciate di potenti paesi industrializzati, promuovere un’ideologia di genere in forte contrasto con le convinzioni e le tradizioni delle popolazioni locali.
D: Dove c’è maggior resistenza? Cos’è quello che voi definite il cosiddetto “paradosso norvegese” ?
R: Difficile dire dove c’è maggior resistenza. In molti paesi – pensiamo ad alcuni latinoamericani – ci sono state grande mobilitazioni popolari; un dibattito molto acceso c’è anche negli Stati Uniti. L’Europa non è da meno: in Francia la resistenza è stata molto forte ed ha costretto il Governo a fare talvolta qualche passo indietro; l’Italia poi ha mostrato nei tempi recenti una reattività che non si era vista forse per decenni. Le grandi manifestazioni di piazza sul tema del gender, della libertà educativa e della famiglia, e il numero di associazioni e iniziative nate nell’ultimo triennio, stanno lì a dimostrarlo.
Tutto questo è indice che il popolo spontaneamente rifiuta imposizioni innaturali venute dall’alto. La gente, generalmente, sa che la complementarietà dei sessi è importate, che il sesso biologico è fondamento dell’identità sessuale, e che esistono differenti tendenze comportamentali in uomini e donne. A quest’ultimo proposito è molto istruttivo il “paradosso norvegese”: la Norvegia è uno dei paesi con maggiore “uguaglianza di genere” e “pari opportunità”. Eppure, è proprio uno dei paesi dove le scelte – ad esempio in termini lavorativi – tra uomini e donne sono più diverse. Ricerche molto solide hanno mostrato che, a livello mondiale, la tendenziale diversità comportamentale tra maschi e femmine non è tanto condizionata da stereotipi culturali, quanto da naturali differenze sessuali: ciò smentisce clamorosamente le teorie di genere.
D: Infine, chi e che cosa a livello nazionale, europeo e mondiale sta spingendo verso questa direzione che vorrebbe scardinare il naturale ordine delle cose, che ha regolato la vita dell’uomo da sempre? Quali interessi sono in gioco?
R: La domanda è complessa e non c’è una risposta unica. A livello politico e sociale dobbiamo registrare l’azione di importanti, ben organizzate e ben finanziate lobby, che ormai da decenni riescono con successo a influenzare enti politici nazionali e internazionali. Si tratta soprattutto in questo caso di organizzazioni LGBT come l’ILGA, oppure organizzazioni che hanno scopi più ampi ma che sposano i dogmi LGBT: pensiamo ad Amnesty o a Planned Parenthood.
Negli ultimi anni la promozione di questa agenda ha subito un’accelerazione importante, probabilmente a causa dell’amministrazione americana, la quale soprattutto con la presidenza Obama, ha utilizzato finanziamenti e ambasciate per imporre a livello mondiale le istanze LGBT e gender.
Inoltre ci sono, naturalmente, gli interessi economici: non è un caso che quasi tutte le aziende più ricche ed influenti abbiamo preso posizione a favore della prospettiva di genere (si pensi a Facebook). Per fare un esempio, ciò si è visto chiaramente negli Stati Uniti quando i colossi della finanza e del consumo hanno esplicitamente richiesto alla Corte Suprema di imporre il “matrimonio gay” in tutti gli Stati.
È chiaro che la prospettiva LGBT e gender muove un sacco di soldi: ciò è legato non solo ai mercati specificamente promossi da queste concezioni (la riproduzione artificiale, l’utero in affitto, la contraccezione, gli interventi modificativi del genere, ecc.) ma anche al fatto che il “gender” indebolisce la famiglia, e con essa l’individuo che diventa sempre più dipendente dal consumo e meno incline al risparmio, più ripiegato sulla soddisfazione personale e meno proteso verso il bene comune.
Intervista ad Alessandro Fiore
(*)Alessandro Fiore è portavoce dell’associazione ProVita onlus di Federico Dal Cortivo, una delle più attive sul fronte della vita e della famiglia naturale. Dopo aver svolto studi in filosofia, storia e bioetica, si è laureato in giurisprudenza con una tesi sui “Reati di omofobia e di transfobia”. É stato relatore in decine di conferenze su tutto il territorio nazionale e in convegni internazionali, trattando soprattutto la controversa questione delle teorie di genere.
Fonte: http://www.italiasociale.net