di Michela Marchi
“Non tolleriamo le violazioni dei diritti dei lavoratori e abbiamo sostenuto con forza che non ci fosse posto per la schiavitù lungo la nostra filiera. Sfortunatamente, il lavoro forzato è un problema endemico del Brasile”. (Nestlé)
“Nessun commerciante di caffè può essere sicuro che lungo la catena di approvvigionamento non ci siano violazioni dei diritti umani e lavoratori ridotti in schiavitù”. Chi parla è qualche oscuro portavoce della Nestlé (non riportiamo il nome, perché non lo fa nemmeno la nostra fonte, il Guardian che riporta un impreciso “Nestlé said”), che giustifica così l’ipotesi che tra i tanti fornitori della multinazionale più conosciuta al mondo, ci sia chi sfrutta i lavoratori, riducendoli in condizioni di schiavitù. E a noi viene subito da chiederci, possibile che una forza economica, politica e sociale come sappiamo tutti essere la Nestlé, non abbia la possibilità di scegliere i propri fornitori? Di scegliere… se non di intervenire. Ma per favore…
La Nestlé e la Jacobs Douwe Egberts hanno ammesso un loro grande limite (per usare un eufemismo), non sono sicuri delle condizioni dei contadini che raccolgono il caffè da loro distribuito. E sapete perché? Dichiarano di non conoscere tutti i propri fornitori. Quindi è possibile che chi lavora per loro, lo faccia in condizioni di schiavitù. E spesso di pericolo.
Tra l’altro questa ammissione di colpa arriva perché sono stati pizzicati dal centro di ricerca danese DanWatch, un centro studi indipendente che si occupa di giornalismo investigativo con focus su diritti umani, ambienti, aree di conflitto. E, quindi, non hanno potuto nascondere le proprie malefatte.
E allora la colpa è degli altri, anzi, il problema è endemico, quindi praticamente immutabile e loro non ci possono fare niente. Davvero volete bere un caffè il cui produttore non conosce nemmeno chi lo coltiva? Hanno la consapevolezza di servirsi di fornitori che sfruttano e riducono in schiavitù i contadini e per tutta risposta alzano le spalle. Per onor di cronaca riportiamo che Starbucks e Illy non hanno questo problema e hanno dichiarato al DanWatch che conoscono perfettamente i loro fornitori e quindi riescono ad evitare le piantagioni “scorrette”.
Il Brasile è il maggiore esportatore di caffè: soddisfa un terzo delle esigenze di mercato mondiali. Peccato che in questo paese ancora troppo spesso vige un sistema basato su lavoratori schiavi dei loro debiti, senza contratti, esposti a pesticidi tossici, privi di equipaggiamento protettivo, costretti a vivere in alloggi senza porte, materassi o acqua potabile. Condizioni che ovviamente violano le leggi brasiliane e internazionali.
Ah… e violano anche il codice etico che Nestlé e Douwe Egberts richiedono ai loro fornitori. Per concludere, aggiungiamo che questi due mostri del mercato globale insieme rappresentano il 39% del mercato mondiale del caffè con i marchi Nescafé, Nespresso, Dolce Gusto, Coffee-mate e Senseo. Pensiamoci quando facciamo la spesa.
Dal 2010, Slow Food lavora per conquistare il marchio “Presidio Slow Food” per i caffè. Una sfida importante, complessa, ma necessaria: avvicinare il più possibile i consumatori e i torrefattori ai produttori di caffè, creando canali di comunicazione e di conoscenza tra due mondi distanti. Una sfida basata sui concetti di tracciabilità delle materie prime, trasparenza a tutti i livelli della filiera, identità.
Oggi sono 16 i torrefattori che stabilmente acquistano, lavorano e commercializzano alcuni caffè dei Presìdi. Una rete composta da artigiani e imprese presenti su tutto il territorio italiano (6 al nord, 8 al centro, 2 al sud), che con passione valorizzano il lavoro dei caficultori e, insieme al caffè, servono ai consumatori la storia, l’identità, la cultura del caffè. Eccoli: http://www.fondazioneslowfood.com/it/il-caffe-secondo-noi/
Articolo di Michela Marchi
Riferimenti:
https://www.fondazioneslowfood.com/it/
https://www.danwatch.dk/en/undersogelse/bitter-coffee-2/
Fonte: http://www.slowfood.it/nestle-e-jacobs-douwe-egberts-ammettono/