di Diego Fusaro
Entro i confini alienati della civiltà dei consumi si realizza la profezia che, su basi aristoteliche, già Dante modulava, in merito alla dinamica intrinsecamente smisurata dell’accumulo di ricchezze: “Promettono le false traditrici sempre, in certo numero adunate, rendere lo raunatore pieno d’ogni appagamento; e con questa promissione conducono l’umana volontade in vizio d’avarizia” (Convivio, IV, 12, 4).
Nuovo oppio del popolo, la religione consumista postmoderna, libertaria e sans frontiéres come stadio supremo del capitalismo nella sua fase assoluta, si fonda essa stessa sulla precarietà e sull’instabilità, sulla flessibilità e sulla destrutturazione di tutto ciò che è fisso. Infatti, la solidità etica e la stabilità in ogni sua forma (emotiva, lavorativa, sentimentale, esistenziale, ecc.) costituiscono un impedimento alla sua “liturgia”, alla sua circolarità funesta che tutto dinamizza e trasforma, di modo che si mantenga e sempre si intensifichi l’orizzonte della società di mercato. È quanto abbiamo delineato nel nostro “Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo” (Bompiani, 2012).
Consumismo e precarietà procedono di conserva, non soltanto perché entrambi si reggono su un regime temporale di transitorietà universale, composto da attimi effimeri e “usa e getta”, ma anche in ragione del fatto che la sofferenza della precarietà, presso il cittadino globale, sembra trovare la sua sola terapia nel godimento del consumo, cifra dell’“edonismo neolaico” , come lo qualificava Pasolini, della civiltà dei consumi.
In effetti, nella pratica del consumo si intrecciano le istanze della precarietà, dell’individualismo e della mercificazione integrale. Il regime consumistico, infatti, è per sua natura precario, sottoposto com’è all’obsolescenza programmata della moda e al ricambio incessante delle merci nella sfera della circolazione; a tal punto che, nel tempo della mobilitazione totale della flessibilità universale, non vi è essente che non appaia come prodotto pronto a essere consumato nell’immediatezza dell’hic et nunc.
L’ideale oraziano dell’aere perennius (più perenne del bronzo) viene sostituito dall’imperativo consumistico dell’usa e getta (Serge Latouche), applicato al regno delle cose come a quello delle persone, esse stesse ridotte al rango di merci a scadenza ravvicinata.
Il regime consumistico è, al tempo stesso, funzione espressiva del singolo individuo, che al nesso intersoggettivo con l’altro e con la comunità, ha sostituito il legame con l’oggetto-merce, abbandonando ogni altra relazione. È questo il nostro presente: occorre comprenderne l’essenza, per poterne ridisegnare altrimenti le geometrie.
Articolo di Diego Fusaro