di Ilaria Betti
Le cozze sono spesso utilizzate dai ricercatori come indicatori dell’inquinamento da microplastiche nei mari, dal momento che non si muovono ma risiedono nel fondale, dove molti dei rifiuti vanno a finire.
Un nuovo studio ha però rivelato qualcosa di inquietante proprio a proposito di questi molluschi: sembra che sia stata trovata della plastica nel 76,6% delle cozze analizzate. Stando a quanto sostenuto da altri report, le microplastiche sono state rintracciate in centinaia di esemplari sparsi per il mondo, dall’Artico alla Cina.
“Le microplastiche sono state trovate nelle cozze in qualsiasi direzione abbiano guardato gli scienziati”, ha spiegato a Reuters, Amy Lusher, ricercatrice del ‘NIVA’ – Norwegian Institute for Water Research – che ha condotto lo studio. Secondo la ricerca, è stata rintracciata più plastica nelle acque incontaminate dell’Artico che in quelle che costeggiano la Norvegia: sarebbero stati i venti e le correnti a spingerla dall’America e dall’Europa verso il nord.
Lo scorso anno alcuni ricercatori cinesi hanno suggerito che le cozze potrebbero essere definite “bioindicatori globali dell’inquinamento da microplastiche”, perché i molluschi vivono sul fondo del mare dove si sedimentano molti di questi rifiuti. Mentre le plastiche ingerite dagli animali marini migrano insieme a loro, quelle che finiscono nelle cozze restano sul posto e possono dunque essere osservate e studiate.
“È un segnale allarmante del fatto che abbiamo bisogno di fare qualcosa per ridurre l’impatto della plastica negli oceani”, ha spiegato a Reuters il professor Richard Thompson della Plymouth University ed esperto in microplastiche. Secondo Thompson, livelli preoccupanti di plastica nei fondali marini possono danneggiare gli animali che lì vivono: il materiale, inoltre, può finire direttamente nel piatto degli umani. Non è ancora chiaro l’effetto del consumo di pesci o molluschi contaminati da parte dell’uomo: ciò che è certo è che la produzione di rifiuti in plastica dovrebbe essere rallentata, e al più presto.
Articolo di Ilaria Betti