di Redazione Galileo
Già 3000 anni fa l’uomo potrebbe aver avuto un’influenza importante sull’ambiente, appiccando vastissimi incendi per far posto a insediamenti e campi agricoli.
(Università Ca’ Foscari) Da quanto tempo l’umanità ha cominciato a influenzare le dinamiche ambientali e climatiche? Per capirlo, alcuni scienziati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e dell’Istituto per la dinamica dei processi ambientali del Cnr (Idpa-Cnr), hanno “interrogato” calotte polari, ghiacciai alpini e himalayani, fondali di laghi in Asia, Americhe, Europa Oceania e Africa.
Dopo cinque anni in giro per il mondo, cercando la mano dell’uomo sull’ambiente, il paleoclimatologo Carlo Barbante, professore a Ca’ Foscari, direttore Idpa-Cnr e leader del progetto ERC Early Human Impact, appena concluso, afferma: “Secondo i nostri dati, già da 3000 anni l’uomo potrebbe aver avuto un’influenza importante sull’ambiente, quando ci fu un picco di incendi in vaste aree del pianeta per far spazio a insediamenti e agricoltura”.
La scoperta contribuisce al dibattito sull’inizio dell’Antropocene, era finora solo teorizzata e generalmente collegata all’avvento della Rivoluzione Industriale. Il paleoclimatologo William Ruddiman, aveva fissato, in passato, l’inizio dell’Antropocene a 7 mila anni fa, attribuendo all’attività umana un anomalo aumento di anidride carbonica nell’atmosfera. Il team di Barbante ha confutato questa ipotesi, dimostrando che l’aumento di anidride carbonica avvenuto in quel periodo non è attribuibile all’uomo, bensì a cause naturali.
Diverso fu l’impatto riscontrato qualche millennio più tardi, quando l’intensificarsi dell’attività incendiaria registrata in entrambi gli emisferi del globo, provocò considerevoli cambiamenti ambientali e climatici su ampia scala. “L’impatto ambientale fu forte e in molti casi irreversibile. Questi eventi sono probabilmente stati la causa scatenante che ha consentito alla nostra specie di gettare le basi per quegli indiscutibili cambiamenti climatici che oggi ci appaiono così evidenti“, spiega il professor Barbante.
Nei millenni successivi, l’impatto antropico si è fatto più intenso e frequente, anche se globalmente frammentato. Emblematici i casi di America Centrale e Nuova Zelanda. Nello Yucatan, l’introduzione di sofisticate pratiche agricole adottate dal popolo Maya, per approvvigionare una società in grande espansione demografica, portò ad uno sfruttamento del territorio tale, da risultare insostenibile e fatale di fronte all’imprevedibile e prolungato periodo di siccità, che interessò l’area diversi secoli prima dell’arrivo di Colombo. E non è da escludere che tale sfruttamento intensivo del territorio, non abbia almeno in parte contribuito ad una così gravosa siccità.
Più tardi, in Nuova Zelanda, isole ricoperte da foreste furono quasi completamente disboscate, per mezzo di incendi intenzionalmente appiccati dai coloni polinesiani, a partire dal 1300 d.C., cambiando completamente e irrimediabilmente il volto dell’isola. Dopo l’arrivo dell’uomo, un attivo regime di incendi, anche naturali, cominciò ad interessare un’isola fino ad allora troppo umida per bruciare naturalmente.
Ma come fanno gli scienziati a ricostruire incendi, presenza umana e ambiente di millenni fa? Grazie ai nuovi metodi analitici sviluppati nell’ambito del progetto Early Human Impact, finanziato dallo European Research Council (Advanced Grant) e appena concluso, il team del professor Barbante è stato in grado di rintracciare nelle “carote di ghiaccio” una molecola, il levuglucosano, prodotta dalla combustione di biomasse. Inoltre, nei sedimenti lacustri gli scienziati riescono a individuare molecole specifiche delle deiezioni umane, indizi della presenza di insediamenti umani. La combinazione di questi vari indizi, permette di dipingere un’immagine più accurata di quelle che sono state le interazioni tra la nostra specie e l’ambiente.
Fonte: https://www.galileonet.it/2017/09/74403/