di Maurizio Blondet
La catena di approvvigionamento è impazzita. Gli Stati Uniti stanno per subire una “carenza diffusa di tutto”, con rincari che impoveriranno la popolazione. E questo avverrà anche in Europa.
Un mio amico lettore mi twitta: “Ho parlato oggi con un grosso spedizioniere. Dice che in giro anche in Europa è un casino perché mancano gli autisti (non si vaccinano ecc.). A parte questo mancano acciaio, alluminio e componenti per l’elettronica perché i cinesi stanno tenendo tutto per loro. Mi ha detto che tempo due mesi si blocca tutta l’industria in Europa, non arrivano materie prime”.
Se si deve additare la causa di tanto disastro, bisogna denunciare uno degli accorgimenti apparentemente più “creativi” ed “efficienti” che ha adottato la produzione industriale: il risparmio delle spese di magazzino. È ormai dagli anni Cinquanta che Toyota, la casa automobilistica giapponese che l’ha inventata, ha adottato la produzione “Just In Time”, in cui le parti e le componenti vengono consegnate dai sub-fornitori alla linea di montaggio proprio e solo quando servono, riducendo al minimo la necessità di tenerne a disposizione tante, riducendo – o azzerando – i costi di magazzino.
Nell’ultimo mezzo secolo, questo approccio è stato adottato da praticamente tutti settori industriali: dall’abbigliamento alla lavorazione degli alimentari fino ai prodotti farmaceutici, le aziende hanno adottato Just In Time per rimanere agili, consentendo loro di adattarsi alle mutevoli esigenze del mercato, riducendo al contempo i costi.
Naturalmente questo suppone una titanica rete di spedizioni e trasporti – logistica – colossale e fluente come olio, attraverso i tre oceani e i continenti per terra, treno, strada, mare ed aria. Per un po’ ha funzionato… Ma il lockdown mondiale ordinato dal Grand Reset ha messo in discussione i meriti della riduzione estrema delle scorte; le industrie sono andate troppo oltre e ciò le espone a interruzioni della produzione. E ad aumenti dei prezzi senza precedenti rispetto ai precedenti “risparmi”.
La pandemia ha seminato il caos nelle spedizioni globali; molte economie in tutto il mondo sono state afflitte dalla carenza di una vasta gamma di merci, dall’elettronica al legname all’abbigliamento. Dai risparmi ottenuti col Just in Time ora devono affrontare rincari enormi delle spese di spedizione e materie prime cruciali, e persino il duro fatto di non riuscire a procurarsi le componenti e materie prime importate a nessun prezzzo.
“È una catena di approvvigionamento impazzita”, ha affermato al New York Times Willy C. Shih, esperto di commercio internazionale presso la Harvard Business School. “In una corsa per arrivare al minor costo ho concentrato il mio rischio. Siamo alla logica conclusione di tutto questo”.
La manifestazione più importante dell’eccessiva dipendenza da Just In Time si trova proprio nell’industria, che l’ha inventata: le case automobilistiche sono paralizzate da una carenza di chip per computer, componenti vitali per auto che sono prodotti principalmente in Asia, e che l’Asia non riesce o non vuole fare arrivare, perché (fra l’altro) c’è scarsità di containers in Estremo Oriente, che sono bloccati in Occidente e intasano i porti americani. Senza abbastanza chip a disposizione, le fabbriche di automobili di Germania, India e Stati Uniti, e Brasile sono costrette a fermare le linee di assemblaggio.
Ma anche Nike e altri marchi di abbigliamento fanno fatica a rifornire i punti vendita delle loro merci. Le imprese edilizie hanno difficoltà ad acquistare vernici e sigillanti. Ma più inquietante la carenza delle materie prime. Mancano rame, minerale di ferro e acciaio. Mais, caffè, grano e soia. Legname, plastica e cartone per imballaggi. Il mondo è apparentemente scarso di tutto. “Fai un nome, e ne abbiamo carenza”, ha detto Tom Linebarger, CEO del produttore di motori e generatori Cummins Inc. “I clienti cercano di ottenere tutto ciò che possono perché vedono una forte domanda”.
Anche i prezzi del cibo stanno aumentando drammaticamente. Un indicatore delle Nazioni Unite dei costi alimentari mondiali è salito per l’undicesimo mese consecutivo, l’aumento più alto degli ultimi sette anni. La cattiva gestione delle materie prime agricole negli Stati Uniti, i problemi meteorologici e la “corsa all’acquisto di colture” in Cina hanno portato a picchi di prezzo più continui di quelli osservati in oltre un decennio.
Le carenze sollevano dubbi sul fatto che troppe aziende siano state troppo efficienti nel risparmiare tagliando le scorte. “Sono gli investimenti che non fanno”, ha detto William Lazonick, economista dell’Università del Massachusetts al giornale americano. E dà un esempio: Intel, il produttore di chip americano, sembra che abbia finalmente deciso di investire 20 miliardi di dollari per costruire nuovi impianti di produzione reale in Arizona, invece che importarli dalla Corea. “Ma sono meno dei 26 miliardi di dollari che Intel ha speso per il riacquisto di azioni proprie nel 2018 e nel 2019, denaro che l’azienda avrebbe potuto utilizzare per espandere la capacità”, afferma Lazonick.
Nel giugno scorso, la Tedesca Bosch ha annunciato di aprire un impianto di chip da 1 miliardo di euro a Dresda, un investimento record per il gruppo automotive che punta ad equipaggiare la nuova generazione di auto elettriche e a guida autonoma. Ma la Reuters ha spiegato che “la fabbrica di semiconduttori tuttavia non farà fronte alla carenza di prodotti come i microcontroller, che ha costretto le industrie automobilistiche a fermare la produzione e che secondo gli analisti e i dirigenti del settore proseguirà fino al prossimo anno”.
Secondo il Libro Beige redatto dai governatori di distretto della Federal Reserve, gli Stati Uniti stanno per subire una “carenza diffusa di tutto”, con rincari che impoveriranno la popolazione. Avverrà anche in Europa.
Articolo di Maurizio Blondet
Fonte: www.maurizioblondet.it