Gestione cronicità Lombardia: una minaccia per i pazienti, i medici e il servizio sanitario

Antonio Bonaldi

La gestione delle patologie croniche, infatti, rappresenta uno dei problemi di maggior impatto sui servizi sanitari.

La lettera recentemente inviata a “Slow Medicine” da un gruppo di medici di famiglia di Milano e Brescia – preoccupati di come la Regione Lombardia intende affrontare la presa in carico dei pazienti affetti da patologie croniche e della quale condividiamo i contenuti – ci stimola ad esprimere qualche riflessione su un tema importante e di grande attualità. La gestione delle patologie croniche, infatti, rappresenta uno dei problemi di maggior impatto sui servizi sanitari.

Basti pensare che i pazienti affetti da una o più patologie croniche rappresentano oltre il 30% della popolazione (più di tre milioni di persone in Regione Lombardia) e che a tali patologie sono destinate almeno il 70% delle risorse sanitarie pubbliche.

A livello internazionale, per questo tipo di assistenza sono stati proposti diversi approcci concettuali. Uno dei più conosciuti e ancor oggi tra i più accreditati è il cosiddetto Chronic Care Model, sviluppato in California negli anni novanta del secolo scorso. Tale modello si basa sull’integrazione delle cure con le risorse della famiglia e della comunità di riferimento, sul coinvolgimento diretto del paziente, sull’organizzazione del lavoro basata su team multi-professionale, sulla personalizzazione delle cure, sui controlli programmati e su un efficiente sistema informativo di supporto.

La Regione Lombardia ha deciso, però, di non seguire questo approccio e di concentrare l’attenzione soprattutto sulle visite programmate e l’accessibilità ai servizi, senza tener conto di tutti gli altri principi sopra-richiamati. In estrema sintesi, il progetto lombardo affida ad enti pubblici o privati (che potrebbero essere anche cooperative di medici di famiglia), la gestione di specifiche patologie croniche, garantendo ai pazienti l’attuazione di piani di cura annuali, standardizzati e predefiniti che contemplano accertamenti diagnostici, visite e prescrizioni farmaceutiche. Nel caso il paziente scelga questa opportunità (può anche decidere di non avvalersene), il medico di famiglia rimane responsabile della gestione degli episodi acuti di malattia e del trattamento di tutte le patologie non riconducibili a quelle specificamente previste nel patto di cura.

A noi questo modo di procedere non piace affatto e ci pare molto rischioso: prima di tutto perché pregiudica la continuità delle cure e il rapporto di fiducia medico/paziente e in secondo luogo perché minaccia la sopravvivenza del servizio sanitario pubblico.

Sul piano clinico, l’idea di affidare ad un gestore le prestazioni specialistiche e le prescrizioni farmaceutiche correlate alle patologie croniche oggetto del piano di cura, è molto pericolosa perché mina alla radice i fondamenti della medicina e in particolare la continuità delle cure e la relazione di fiducia che si deve instaurare tra medico e paziente.

Tale approccio si allinea all’idea che la persona sia un’entità biologica suddivisibile in organi e apparati (come nei libri di anatomia) e che questi, grazie alla tecnologia, possano essere controllati, valutati e riparati prendendoli in considerazione, in tempi predefiniti e uno per volta. A questo fine il corpo-macchina deve essere sottoposto a revisioni periodiche, standardizzate e programmate (ciò che le officine meccaniche propongono per le autovetture), nell’illusione che il comportamento e l’evoluzione delle malattie sia uguale per tutti e che per curarsi basti attenersi ad una serie di controlli programmati da affidare ad un clinical manager.

L’attenzione è concentrata sulla malattia, il paziente non è altro che un corpo da revisionare e la persona semplicemente non esiste. Esattamente il contrario di ciò che propone la medicina personalizzata, secondo la quale ogni paziente ha caratteristiche peculiari di cui si deve tener conto in modo complessivo e che attengono non solo alla sua salute, ma anche al contesto di riferimento. Ciò vale soprattutto nei momenti imprevedibili di una riacutizzazione della malattia, o nel caso di eventi inaspettati che possono richiedere la ridefinizione del percorso di cura.

Senza mettere in discussione l’importanza degli accertamenti periodici, non si può certo immaginare che la salute delle persone possa essere garantita semplicemente attenendosi ad un piano di controlli annuali, ancorché desunti da specifiche linee guida. Essi rappresentano, infatti, uno degli strumenti di lavoro del medico, non il fine dell’assistenza e, oltretutto, possono essere assicurati in tanti modi diversi, meno complicati e non certo a discapito della relazione medico-paziente che rimane prioritaria, centrale e insostituibile.

Sul piano organizzativo, la proposta, oltre ad essere oltremodo macchinosa, rappresenta una vera e propria minaccia per la sopravvivenza del servizio sanitario pubblico. Essa, infatti, sottrae al medico curante uno dei suoi compiti più importanti e introduce la possibilità di affidare a gestori privati, la cura di un grandissimo numero di pazienti affetti da patologie croniche (oltre 3 milioni in Lombardia).

Un’occasione ghiotta che molti imprenditori, attenti al profitto più che ai bisogni di salute, non si lasceranno certo sfuggire. Di fatto, il “patto di cura” si configura come un formale contratto di prestazioni che il paziente si impegna a rispettare e il gestore si incarica di garantire, attraverso il clinical manager e un contratto con un ente erogatore.

Al di là dell’effettiva sostenibilità economica di un programma del genere, non è difficile, inoltre, immaginare che dopo essere stato “reclutato”, il paziente possa essere “invogliato” a sottoporsi a prestazioni sanitarie non previste nel piano di cura e magari inutili, inappropriate e forse anche dannose.

La situazione di fragilità, l’asimmetria informativa, la mancanza di un rapporto di fiducia, la scarsa conoscenza del paziente, la cultura prevalente secondo cui “fare di più è sempre meglio” e non ultimo la prospettiva di facili guadagni, sono tutte condizioni che facilitano un “overuse” di prestazioni. A questo riguardo la letteratura scientifica, oltre che la cronaca quotidiana, sono ricchissimi di esempi molto istruttivi, che dovrebbero farci riflettere e soprattutto aiutarci ad evitare di offrire nuovi incentivi ad un mercato della salute già sufficientemente aggressivo.

Certo è che anche i medici di famiglia dovrebbero interrogarsi sul fatto che sia stata approvata una legge così imbarazzante per la loro immagine e così ricca di incognite per i loro assistiti. È pur vero, che i medici possono organizzarsi in cooperative, che la scelta finale se avvalersi del gestore è affidata al paziente e che circa il 50% dei medici di famiglia non ha aderito al progetto. Tutto ciò sembra comunque poca cosa in considerazione di un provvedimento che pregiudica le loro competenze e lede la loro autonomia professionale.

A questo punto, i medici di medicina generale dovrebbero far sentire alta e chiara la loro voce, ma soprattutto dovrebbero unirsi per ridiventare protagonisti del loro futuro, proponendo un progetto alternativo, concreto e fattibile. Un progetto che preveda nuove risorse per l’assistenza territoriale e per le cure primarie, si richiami ai principi della medicina basata sulla persona, promuova il lavoro in équipe e possa far affidamento su una rete ben strutturata di servizi di supporto.

Siamo tutti ben consapevoli che non sempre il medico di famiglia è in grado da solo di assolvere al carico di lavoro che richiede la cura dei pazienti cronici e che l’impegno di molti può essere inficiato dalla trascuratezza di pochi, ma questo è il momento di agire con proposte e interventi che diano valore alla medicina del territorio, promuovano l’associazionismo tra professionisti e restituiscano al medico di famiglia il ruolo centrale e insostituibile che gli compete.

Articolo di Antonio Bonaldi – Presidente di Slow Medicine

Fonte: http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=58640

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