di Enrica Perucchietti
“I robot ‘uccideranno’ un sacco di posti di lavoro, perché in futuro queste mansioni verranno svolte dalle macchine“.
L’allarme viene da Davos, dove Jack Ma, fondatore e principale azionista del sito di commercio on line Alibaba, ha denunciato il fatto che l’Intelligenza Artificiale è una “minaccia” per gli esseri umani e che presto i robot cancelleranno milioni di posti di lavoro, “perché in futuro queste mansioni verranno svolte dalle macchine“. Macchine che, a differenza dei lavoratori umani, non devono essere pagate, non soffrono la stanchezza, la fame o la depressione.
Si tratta dell’ennesimo allarme sui pericoli dell’automazione che proviene da un uomo d’affari e pioniere nel campo delle nuove tecnologie: Ma, come molti nomi illustri prima di lui, si è detto preoccupato per il futuro dell’umanità. “La tecnologia“, ha spiegato, “dovrebbe sempre fare qualcosa per potenziare le capacità della gente, non diminuirle“.
Le parole di Ma risuonano in tutto il mondo negli stessi giorni in cui è scoppiata la polemica riguardante il braccialetto elettronico in grado di monitorare i movimenti dei dipendenti e di controllarne la produttività brevettato da Amazon nel 2016, ma riconosciuto ufficialmente soltanto la scorsa settimana. La multinazionale di Jeff Bezos si è difesa dalle accese polemiche e ha risposto al clamore suscitato, parlando di “speculazioni” e sostenendo che “la sicurezza e il benessere dei dipendenti sono la nostra priorità“.
Per chi volesse approfondire la questione, rimando al libro inchiesta di Jean-Baptiste Malet, “En Amazonie”, dove il giornalista racconta la sua esperienza di “infiltrato” come lavoratore interinale all’interno di un magazzino francese di Amazon per circa un mese, testimoniando i ritmi di lavoro frenetici e massacranti, le pause cronometrate, un sistema di controllo che esaspera la competitività tra gli stessi lavoratori, ecc. Situazioni che si possono ritrovare in molti altri posti di lavoro, dove le condizioni dei dipendenti sono a dir poco alienanti.
Sempre più spesso sentiamo parlare della stretta sul controllo elettronico, di “innovazioni tecnologiche” per rendere i processi produttivi più semplici ed efficaci che si rivelano però, a uno sguardo più attento dei mezzi per de-umanizzare il lavoro e schiavizzare i dipendenti. Si tratta di una nuova forma di “capolarato digitale” che, grazie al controllo sempre più pervasivo, sta rendendo i lavoratori degli “uomini di vetro”, trasparenti e sotto costante sorveglianza. Ciò non può che causare ulteriore stress, competitività e depressione nei dipendenti, registrando preoccupanti ripercussioni nell’intero tessuto sociale.
Riccardo Staglianò nel suo libro “Al posto tuo”, parla di “disboscamento dagli umani“ in quanto il supercapitalismo digitale, in particolare in settori come la logistica, non solo ha “assunto magazzinieri, pagandoli poco e facendoli trottare tanto“, ma ora punta alla progressiva sostituzione dei lavoratori umani con le macchine, come confermato oltreoceano dallo stesso Ma.
Invece di “progredire”, di evolverci e di migliorare non solo la produttività ma anche le condizioni e i diritti dei lavoratori, siamo ripiombati indietro nel tempo, registrando ritmi di lavoro frenetici, terrorismo psicologico e condizioni al limite della schiavitù.
A ciò si aggiunge la questione del controllo sul luogo di lavoro. Pensiamo, per esempio, alla nuova moda di impiantare chip dermali per “comodità” sui luoghi di lavoro, senza minimamente pensare alle conseguenze sociali del gesto (si pensi al caso della Three Square Market, i cui manager avevano proposto ai propri dipendenti l’innesto di un microchip RFID in grado di contenere tutte le informazioni utili alla vita in azienda e il caso della svedese Epicenter). Già nel 2015, anche Fincantieri aveva provato a introdurre una modalità simile: nel corso delle trattative per il rinnovo del contratto integrativo, l’azienda avrebbe chiesto di introdurre microchip negli scarponi e negli elmetti degli operai “per implementare la sicurezza” sul lavoro e conoscere sempre la posizione dei dipendenti. I sindacati, per fortuna, intervennero dichiarando inaccettabile la richiesta.
Non è necessario infiltrarsi come Malet in un’azienda per immaginare la situazione di alcuni lavoratori, condannati a lavorare come in un girone infernale. Lavorare male e in modo precario per guadagnare poco e vivere altrettanto male. In questa discesa agli inferi, il lavoro prima è stato delocalizzato per abbassare i costi, trasferendo la produzione in Paesi emergenti, dove gli operai costano meno che da noi, poi come effetto collaterale della delocalizzazione, i lavoratori immigrati sono arrivati da noi sperando di guadagnare di più. La miseria con cui venivano pagati gli immigrati è diventata poi il parametro cui adeguare la nostra paga, livellando così verso il basso tutti i salari. Il lavoro è diventato sempre più disumano e precario.
Ovviamente non è finita. Il passo successivo è la sostituzione dei lavoratori con i robot, come denunciato da Jack Ma. La Terza Rivoluzione Digitale è in atto e Ma invita a “non competere con le macchine” ma a sviluppare ciò che i robot non possono ancora rubarci: la creatività e lo spirito di collaborazione.
Per evitare che lo sviluppo tecnologico ci schiacci, è fondamentale mettere la tecnologia al servizio dell’uomo, invece che contro di esso, migliorando la vita di tutti, puntando al benessere collettivo e non alla mera produttività e alla ricchezza di pochi.
Articolo di Enrica Perucchietti