di Roberto Gava
In questi ultimi decenni possiamo dire di essere stati piano piano abituati a ricorrere ai farmaci non solo per ogni disturbo patologico, ma anche per i più banali disturbi funzionali, che potrebbero essere risolti semplicemente con un po’ di riposo, con qualche ausilio naturale o semplicemente con un po’ di pazienza.
Lo stesso vale per la prevenzione primaria. Ci stiamo lentamente abituando al concetto che i farmaci possono prevenire le patologie: con l’acido acetilsalicilico (Aspirina e simili) possiamo prevenire le patologie cardiovascolari, con le statine possiamo prevenire le patologie aterosclerotiche e con i vaccini le malattie infettive. La Farmacologia invece insegna che i farmaci, qualsiasi farmaco, quando vengono somministrati cronicamente non svolgono azioni preventive, ma possono eventualmente spostare nel tempo la patologia per cui vengono usati, oppure possono sostituire un certo rischio patologico con qualche realtà patologica (non esiste un farmaco privo di effetti indesiderati o privo di effetti che siano collaterali alla sua azione farmacodinamica).
Ci stiamo invece dimenticando che la vera prevenzione primaria delle malattie si fa prima di tutto e indipendentemente da tutto con una adeguata igiene di vita e cioè: alimentazione, riposo, attività fisica, lavoro e hobby presenti possibilmente nella stessa giornata e adattati alla singola persona.Questo concetto viene affermato anche dalla sottostante riflessione del Dr. Eugenio Serravalle, pediatra di Pisa: “Dal rapporto dell’Ocse per il 2013 sulla Sanità, risulta che gli Italiani sono, insieme agli Svizzeri, i più longevi di tutti. Eppure la spesa sanitaria pro capite in Italia è stata di 3.012 dollari, in Svizzera di 5.643 (dati 2011). Spendono meno di noi solo i Paesi dell’Europa dell’Est. Al contrario, Francia, Germania, Danimarca e Germania erogano almeno 1.000 euro in più dell’Italia per ciascun cittadino, mentre negli Stati Uniti la spesa sanitaria pro capite è circa tre volte la nostra (8.508 dollari). Un altro dato indicativo dell’Istat è che “le malattie del sistema circolatorio sono la principale causa di morte in quasi tutti i paesi dell’Ue”.
Cosa se ne può dedurre?
In primo luogo che, una volta raggiunti gli standard socio-economici propri dei Paesi più progrediti, non c’è una proporzionalità diretta tra consistenza della spesa sanitaria e speranza di vita. In secondo luogo, che la patologia che miete più vittime in tutti i Paesi sviluppati è fortemente legata agli stili di vita e di conseguenza è condizionata da questi.
Una conferma proviene da uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Health Affaire (vol. 21/2013) da parte di J. Michael McGinnis e colleghi, dal quale risulta che di 100 decessi che avvengono negli Usa in un anno, ben il 40 per cento sono imputabili a inadeguati stili i vita (e poi il 30 per cento a cause genetiche, il 15% al contesto sociale e il 10 per cento all’inadeguatezza delle cure).
La crisi, che ha colpito così duramente i Paesi Occidentali in questi ultimi anni, ha imposto politiche restrittive in tutti i campi, incluso quello delicatissimo della sanità. Proprio le ristrettezze di bilancio dovrebbero riuscire a vincere inerzie e resistenze nel ripensare a fondo il rapporto tra terapia e prevenzione della malattia, quest’ultima ancora una volta legata agli stili di vita.
Ciò passa anche attraverso una nuova e diversa educazione sociale, che aiuti a rendere gli individui meno dipendenti dall’intervento terapeutico o farmacologico, in tutti i casi di alterazione lieve dello stato di salute e suscettibile di guarigione senza il ricorso a misure medicali. Secondo lo studio sopra citato sulla salute degli americani: “Nel corso del XX secolo sui trenta anni di aspettativa di vita guadagnati solo il 5 per cento può essere imputato al miglioramento delle cure mediche”.
La politica sanitaria italiana va in direzione contraria: per una patologia come l’influenza, si pretende di organizzare campagne vaccinali di massa e nel Piano Nazionale Prevenzione Vaccini 2012-2014, si protesta contro il fatto che, “durante la recente pandemia influenzale, gli stessi operatori sanitari hanno manifestato una scarsissima adesione alle campagne di vaccinazione”. Si pretende, cioè, che un medico ricorra a un intervento farmacologico, il vaccino antinfluenzale, di efficacia non dimostrata, anziché a semplici misure di prevenzione quali il lavarsi spesso le mani e coprirsi naso e bocca per starnutire o tossire.
È bene precisare: non si sta dicendo di fare di necessità virtù. L’inversione di rotta non deve essere determinato dalla crisi: quest’ultima può costituire solo l’occasione per elaborare nuove linee di politica sanitaria che avrebbero dovuto, in realtà, essere oggetto di discussione già da tempo, in modo del tutto indipendente da qualsiasi considerazione di bilancio, avendo come priorità la salute del paziente e l’autonomia delle strutture medico-ospedaliere dalle strategie espansionistiche dei grandi colossi farmaceutici.
di Roberto Gava: Farmacologo, Tossicologo, Cardiologo, Omeopata
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it