di David T. Jones
L’astronauta Edwin E. Aldrin Jr. sulla superficie della Luna durante la missione Apollo 11 il 20 luglio 1969. (NASA / AFP / Getty Images)
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno dominato l’economia globale. Inizialmente, dopo la guerra, erano la sola economia significativa a non essere andata totalmente in rovina (Germania, Giappone e Italia) o a rimanere profondamente danneggiata dai sacrifici conseguenti al combattere la guerra (Gran Bretagna, Russia).
Le grandi fabbriche degli USA non furono colpite: avevano prodotto quantità impressionanti di materiale bellico (aerei, veicoli, elettronica). Questi impianti furono velocemente convertiti alla produzione dei beni di consumo, per soddisfare la repressa domanda americana (e globale).
Allo stesso tempo l’innovazione tecnica e scientifica Usa, che abbracciava tutti i settori economici e culturali, generò un flusso apparentemente infinito di prodotti di riferimento: televisione commerciale; aerei passeggeri trans-oceanici; computer che passarono dalla “dimensione di una stanza”, attraverso l’uso di tubi a vuoto, agli antenati degli iPhone con una potenza di calcolo maggiore rispetto a questi primi mostri; e la rivoluzione verde in agricoltura, che in alcuni periodi ha praticamente nutrito il mondo.
Forse questo dominio ha toccato il suo apice con l’uomo sulla Luna nel 1969, poco meno di mezzo secolo dopo il volo solitario di Lindberg del 1927, attraverso l’Oceano Atlantico. Ma questo primato è diminuito costantemente.
Altri svilupparono una capacità tecnologica comparabile (spesso accellerata dalla produzione Usa che costruiva fabbriche in questi Paesi per trarre vantaggio dal minor costo del lavoro), e gli Stati Uniti si sono traformati dall’essere la fabbrica del mondo a essere il consumatore più grande al mondo di beni di consumo prodotti all’estero.
Dall’essere i leader del mondo, sono diventati il più grande debitore al mondo. Hanno sviluppato abilità senza pari nelle manipolazioni finanziarie, facendo di Wall Street la casa degli strumenti fiscali, per esempio, dei “derivati”, che nessuno che non avesse un master in Gestione d’impresa, aveva un minimo d’idea di cosa fossero.
Ma gli ‘esperti’ sembrava sapessero che cosa stavano facendo: tutti facevano soldi e chi parlava di “esuberanza irrazionale” in merito ai prezzi delle azioni e ai finanziamenti ipotecari, veniva respinto come “rompiscatole”. E il ‘bel tempo’ si affacciava globalmente – più in alcuni Paesi che in altri – ma con passi importanti nella lotta mondiale alla povertà e con il miglioramento delle strutture sociali ed economiche.
E poi nel 2008 è arrivata l’esplosione del mercato Usa dei mutui e il concomitante fallimento delle grandi banche. Anche se non costrette al fallimento, le banche erano state danneggiate a tal punto che il recupero (per non parlare del recupero nella fiducia dei consumatori) ha necessitato di un processo di lungo periodo.
Allo stesso tempo, il mercato azionario è precipitato e i singoli investitori hanno visto il valore del loro portafoglio crollare. Poi l’aumento della disoccupazione fino alle due cifre. Molti trimestri di crescita negativa hanno qualificato il collasso come una recessione, la cui profondità e durata, l’hanno fatta ribattezzare la “Grande Recessione”.
Non sorprende che la Grande Recessione abbia dominato l’economia nazionale e globale negli ultimi sette anni, giocando un ruolo fondamentale nelle elezioni federali degli Usa nel 2008, 2010, 2012 e 2014.
In sostanza, ci sono due scuole di pensiero per rimettere gli Stati Uniti (e il mondo) di nuovo in pista: spendere come via d’uscita dalla recessione o rifugiarsi e limitare la spesa al reddito disponibile. I liberali/democratici vogliono spendere su tutto, dalla sanità alle infrastrutture. I conservatori/repubblicani vogliono tagliare su tutto, dalle tasse alla spesa federale.
E si è sempre speso! Il debito Usa è oltre la comprensione media dei cittadini. Ma i risultati sono incerti. La crescita economica è di gran lunga al di sotto del 3 per cento annuo desiderato. La disoccupazione è scesa, ma molti “lavoratori” occupano posizioni non soddisfacenti o di bassa retribuzione. Solo un quarto della popolazione Usa ritiene che il Paese stia andando nella giusta direzione.
La maggioranza pensa che i tempi migliori siano passati. Rilevano le enormi disparità di reddito tra il ‘1 per cento’ e ‘il resto’. Quando i tempi sono buoni, la disparità è irrilevante; quando non è così, l’invidia e la cattiveria vengono allo scoperto. ‘Tassa i ricchi’ ma non togliere nessuno dei miei benefici. ‘Taglia le tasse’ (che renderebbe i ricchi ancora più ricchi), ma non tagliare la rete di sicurezza sociale, che rappresenta gran parte del debito nazionale.
E i progetti infrastrutturali ricordano progetti imponenti come il ‘Grande Scavo’ di Boston, originariamente costato 2,8 miliardi di dollari, ma con un prezzo finale stimato in 22 miliardi dopo oltre 16 anni di lavoro. Nessuna corruzione?
In un certo momento, nel corso degli anni, il tocco magico dell’ottimismo d’azione degli Stati Uniti è svanito e la superpotenza si ritira ora da tutte le proprie posizioni nel mondo, con una chiara riluttanza a sacrificare sangue e ricchezze. Questa è un’epoca di ‘ci siamo già stati’ e ‘l’abbiamo già fatto’ in cui la luce alla fine del tunnel non è più scontata com’era una volta. E senza che vi siano buone risposte.
David T. Jones è un ufficiale senior del servizio estero del Dipartimento di Stato maggiore che ha pubblicato diverse centinaia di libri, articoli, editoriali e commenti sulle questioni bilaterali USA-Canada e la politica estera Usa in generale.
Articolo in inglese: http://www.theepochtimes.com/n3/1895289-us-economy-where-has-the-mojo-gone/
Fonte: http://epochtimes.it